Guerra culturale, culture guerriere

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“L’Ucraina è parte integrante della storia e della cultura russa”. Con queste parole Vladimir Putin ha compiuto il primo passo verso la cosiddetta “Operazione militare speciale” in Ucraina. Tra le tante dimensioni che costituiscono le guerre, quella culturale che si svolge attingendo dal patrimonio simbolico e materiale è una delle più significative.

È il 1696 quando il Sultano ottomano Mustafa II sferra un fallimentare attacco alla fortezza di Azov, nell’Oblast’ di Rostov sul fiume Don, odierna Russia meridionale. L’assalto è finalizzato a recuperare un territorio precedentemente sottratto dall’Impero russo a seguito della Campagna d’Azov, promossa dallo Zar Pietro I detto il Grande per aprire il desiderato sbocco sui mari caldi del sud-ovest del continente eurasiatico e scalfire l’egemonia ottomana sul mar Nero. La strenua difesa delle truppe cosacche venne celebrata due decenni più tardi dai fratelli Semen e Jakov Lizohub, figli e nipoti di Eufyme e Jakov, comandanti in capo dello schieramento imperiale.

I due fratelli, residenti a Cernihiv e di religione ortodossa, scelgono di erigere una chiesa in stile barocco ucraino che nel 1715 verrà consacrata alla popolare santa Caterina d’Alessandria. Oggi – dopo due restauri a seguito dell’incendio del 1837 e delle devastazioni della Seconda guerra mondiale – la chiesa si trova ad un paio di chilometri dal municipio della città e sembra brillare di una lucentezza eterea quando le sue pareti bianche e le sue cupole dorate riflettono i raggi del sole. A pochi passi da lei, in direzione sud, si arriva al lungo fiume Desna che proprio qua, appena più in basso di Cernihiv, inizia la sua parte finale che lo porterà ad affluire circa 150 chilometri a sud-ovest nella capitale ucraina Kiev.

La cattedrale di Santa Caterina (Cernihiv)

Il rapporto con Kiev è particolarmente forte: oltre al collegamento fluviale diretto, infatti, i legami si sono fatti sempre più stretti dopo il 1990, quando un gruppo di attivisti cosacchi rifondarono l’attività sociale della comunità proprio in questa chiesa dopo 57 anni di proibizionismo sovietico.

La chiesa di Santa Caterina è patrocinata dal Patriarca di Kiev e la sua comunità ha rivestito un ruolo importante in seguito a Euromaidan: numerosissimi sono stati i sostegni economici per la rigenerazione dell’esercito ucraino e la comunità parrocchiale si è distinta per il supporto alle lotte in corso nella guerra del Donbass. Nel “Libro dei benefattori e benemeriti” della chiesa di Santa Caterina è presente dal 2014 il nome di Mikola Bruj, parrocchiano morto nel corso di combattimenti avvenuti nei pressi della città di Luhans’k, uno dei luoghi più importanti del conflitto russo-ucraino.

Dall’inizio del conflitto la zona di Cernihiv è stata investita potentemente dall’avanzata russa, la città è stata accerchiata e bombardata più volte e rimane un obiettivo sensibile nonostante l’affievolirsi della pressione esercitata nel quadrante settentrionale con il ritiro delle truppe russe.

L’attenzione rimane alta: oltre alle condizioni dei civili desta preoccupazione anche lo stato del patrimonio culturale, artistico e architettonico del paese. In ogni guerra i riferimenti identitari sono fortemente sollecitati e la difesa del patrimonio simbolico e materiale è considerata un fattore essenziale per tenere alto il morale, rinsaldare la fiducia e rivendicare la presenza e la tenacia dei difendenti.

La chiesa di Santa Caterina, nonostante le preoccupazioni per il suo destino, rimane integra e testimonia plasticamente, con la sua presenza e per via della sua storia, la resistenza dello spirito ostile al progetto imperialista di Vladimir Putin, ma non tutti i monumenti presenti in Ucraina son stati così fortunati.

A rimarcare ancora di più l’importanza e la potenza dei riferimenti culturali condivisi ci ha pensato il presidente Volodymyr Zelenksy l’1 di marzo con un tweet in cui scrive: “A tutto il mondo: che senso ha dire ‘mai più’ per 80 anni, se il mondo rimane in silenzio quando una bomba cade sullo stesso sito di Babyn Yar? Almeno 5 morti. La storia si ripete…”. Il commento è riferito al bombardamento operato dall’esercito russo al Memoriale per l’olocausto di Babj Jar, luogo dove fu compiuto uno dei tre più grandi massacri della storia dell’Olocausto.

Il tweet di Zelensky

Un altro memoriale dell’Olocausto è stato preso di mira e danneggiato il 25 marzo alla periferia di Kharkiv, una delle città più martoriate dall’invasione russa. Nel corso dei primi 40 giorni di guerra sono stati bombardati e danneggiati gravemente o distrutti oltre al memoriale anche il Municipio, il Teatro di Stato per l’Opera e il Balletto, la centrale Piazza della Libertà e l’Università Nazionale Vasyl’ Karazin, secondo ateneo più antico dell’Ucraina.

Anche il Museo d’arte di Kharkiv è stato investito direttamente dal conflitto e anche in questo caso ci si trova di fronte ad un ricorso storico. La creazione di questo museo fu frutto di una iniziativa diretta dell’università cittadina che risale agli inizi del 1800 e proseguì per tutto il secolo successivo. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale il museo è considerato il fiore all’occhiello del patrimonio artistico sovietico, ma questo successivamente non impedirà che la collezione di più di 75 mila opere venga quasi completamente abbandonata durante l’invasione nazista, lasciando il museo e le sue opere in balia dei generali tedeschi.

Al volgere della situazione in favore dell’Armata Rossa i nazisti si premurarono di portare a Berlino tutte le opere e dare alle fiamme l’edificio, questa volta invece è andata decisamente meglio: i danni sono contenuti e tutte le opere sono rimaste intatte, anche se a detta della direzione del Museo la loro conservazione soffrirà del drastico cambiamento del regime di temperatura e umidità.

L’UNESCO ha monitorato la situazione attraverso testimonianze dirette e l’ausilio delle tecnologie satellitari e l’1 di aprile ha dichiarato che almeno 53 siti culturali sono stati danneggiati o distrutti dal 24 febbraio in poi. Per il ministro della cultura ucraino sarebbero ben 135 gli attacchi delle truppe russe diretti al patrimonio culturale. Tra questi il bombardamento del teatro di Mariupol ha destato particolare impressione e sconcerto per la forza devastatrice dell’attacco, diretto verso un obiettivo civile in quel momento pieno di cittadini che cercavano riparo.

La preoccupazione delle istituzioni sta cercando di tradursi in iniziative dirette alla protezione di monumenti e siti d’interesse culturale, anche se c’è già chi si organizza: a Leopoli i cittadini hanno spontaneamente iniziato a rivestire le statue della città di sacchi e imbottiture, un gesto forse poco efficace se rapportato alla violenza di un missile, ma di grande significato.

Un cittadino ricopre di teli una statua a Leopoli (Ucraina)

Dal 1696 a oggi, dallo Zar Pietro I al presidente Vladimir Putin, dalla Campagna d’Azov alla cosiddetta “Operazione speciale”, ci sono almeno due fili che collegano tra loro gli avvenimenti e ne restituiscono il senso intrecciandosi vicendevolmente: uno è il filo della guerra, brutale, violento e rosso di sangue, è fatto di interessi economici e strategici, di imperialismi, esplosioni, dolore e sofferenze. L’altro è il filo della cultura, è bianco come la chiesa di Santa Caterina ed è fatto di ciò che gli umani instancabilmente costruiscono, distruggono e ricostruiscono senza darsi tregua, stabilendo la propria presenza al mondo come parte di un qualcosa di ben più di un semplice corpo e un’unica biografia.

Al microscopio e al rallentatore questi due fili son ben distinguibili: un conto è una bomba un conto una statua, si dirà. Ma quando le contingenze della storia confondono i piani il rosso e il bianco si mescolano inesorabilmente: ogni statua porta il segno di una bomba e ogni bomba attenta alla conservazione di una statua. Il rosso della guerra e il bianco della cultura sfumano l’uno sull’altro e si fanno tutt’uno, quasi come se guerra e cultura fossero necessarie l’una per l’altra.

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