Dopo il referendum la rivoluzione in Tunisia è sconfitta?

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Lunedì 25 luglio il referendum costituzionale promosso dal Presidente Saied è passato con il 92.3% del consenso dei votanti: cosa succederà adesso in Tunisia?
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Lunedì 25 luglio il referendum costituzionale promosso dal Presidente Saied è stato approvato con il 92.3% del consenso dei votanti: cosa succederà adesso in Tunisia?

proteste referendum
A Tunisi i cittadini partecipano a una protesta contro il referendum costituzionale proposto dal presidente Kais Saied. [Zoubeir Souissi/Reuters]

L’odore dei gelsomini

Quando a cavallo tra il 2010 e il 2011 in tanti stati arabi la popolazione si mobilitò attraverso tecniche di resistenza civile non violenta e un’organizzazione non centralizzata il mondo occidentale gioì, in onore alla libertà e alla democrazia. Fu chiamata Primavera Araba: un vero e proprio effetto domino popolare che, anche grazie alla novità rappresentata dal ruolo dei social network lasciò media ed esponenti politici strabiliati per le ineluttabili magnifiche sorti e progressive che attendevano il mondo libero.

Questo movimento si generò dalla Tunisia, dove Mohamed Bouazizi scelse di darsi fuoco, incontrando la morte, per denunciare i maltrattamenti e le vessazioni della polizia. Poche ore prima del suo atto le corrotte forze dell’ordine di Sidi Bouzid, piccolo paese nell’entroterra, avevano tentato di sequestrargli la frutta e la verdura che lui abitualmente vendeva e successivamente lo avevano malmenato di fronte a tutto il mercato.

Era il 17 dicembre del 2010. Per le ustioni conseguite Bouazizi morì al centro per grandi ustionati di Ben Arous il 4 gennaio 2011, dopo esser passato per altri due ospedali e aver ricevuto la visita dell’allora capo di stato Zine El-Abidine Ben Ali. Questo gesto però non bastò a salvare il presidente.

Fu sempre la Tunisia infatti, tra gli altri stati coinvolti dalla cosiddetta Primavera Araba a varcare per prima il passaggio che da una rivolta porta alla rivoluzione. Il 18 dicembre centinaia di persone si riunirono di fronte al municipio di Sidi Bouzid, a protestare e chiedere giustizia per Bouazizi. Da quel giorno la notizia prese a spargersi e incontrò solidali in tutto il paese, in particolare negli studenti universitari e giovani disoccupati di Tunisi.
Divenne nota con il nome di Rivoluzione dei Gelsomini

Si innescò un processo che portò il presidente Ben Ali, in carica da più di 20 anni, prima a cambiare il governo poi, nel giro di qualche giorno, ad annunciare l’inizio di un percorso triennale che lo avrebbe portato a lasciare il potere e infine alla precipitosa fuga in Arabia Saudita, dove morì nel 2019.

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Un discorso televisivo di Ben Ali poco prima di abbandonare la Tunisia, il 13 gennaio 2011.
foto: AP Photo / Channel 7 Tunisia

Nell’ottobre del 2011 si tennero le elezioni per l’Assemblea Costituente della Tunisia. Questo appuntamento definì gli uomini e le donne che lavorarono per scrivere la Costituzione, entrata in vigore il 26 gennaio 2014 dopo due mesi di intensa discussione in riunione plenaria su tutti i 146 articoli.

L’equilibrio di poteri che fu stabilito dalla Costituzione Tunisina del 2014 prevedeva una partizione equa delle responsabilità di intervento politico tra il Presidente, eletto direttamente dai cittadini, e il Primo Ministro, espressione dell’Assemblea dei rappresentanti del popolo, scelti tra i membri dei partiti.

Proprio nel 2014, ad ottobre e a dicembre, si tennero le elezioni democratiche per i membri dell’Assemblea del popolo e per il Presidente della Repubblica. Beji Caid Essebsi, fondatore del partito Niddaa Tounes, fu eletto presidente all’età di 88 anni. Nei suoi anni di governo, prima di incontrare la morte da presidente in carica nell’estate 2019, dovette affrontare la gestione di difficili condizioni economiche e anche il problema del terrorismo.

A distanza di più di un decennio proprio la nazione in cui tutto era iniziato, la Tunisia, sembrerebbe oggi aver chiuso il cerchio delle primavere arabe. Dopo la repressione delle rivolte nella maggior parte degli stati coinvolti e i fallimenti delle rivoluzioni in Egitto, Libia, Siria e Yemen, il referendum costituzionale proposto da Kais Saied, capo di stato tunisino, è stato approvato e il sogno rivoluzionario sembra essersi definitivamente smarrito.

La prova di forza

Nel 2019, a cavallo tra settembre e ottobre, si tennero le seconde elezioni presidenziali e parlamentari. Il presidente eletto Kais Saied si trovò ad avere a che fare con una Assemblea in cui la maggioranza relativa era posseduta da Ennahda, il partito islamista che già aveva avuto la maggioranza nella Assemblea Costituente.

Ennahda riuscì cosi a eleggere il suo leader Rached Ghannouchi come Presidente dell’Assemblea e ad esprimere successivamente anche il primo ministro, Hichem Mechichi. La maggioranza su cui ha potuto contare il partito conservatore islamista era però poco solida: le elezioni definirono un Assemblea fortemente frammentata, nella quale era necessario trovare degli accordi per governare.

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La sede dell’Assemblea dei Rappresentanti del Popolo, al Palazzo del Bardo di Tunisi, Tunisia.

Lo scoppiare della pandemia trovò un governo instabile e impreparato: nel giro di poco più di un anno cambiarono tre primi ministri, in un susseguirsi di crisi politiche senza apparente soluzione. L’inasprirsi della crisi economica e l’inefficace gestione della campagna vaccinale alimentarono lo scontento e la tensione, e i rapporti tra Il presidente Saied e il governo si inasprirono progressivamente.

Durante la scorsa estate Saied ha proposto di superare la Costituzione del 2014 e le sue “serrature” alzando la temperatura dello scontro il governo, fino ad arrivare ad esautorarlo dalla gestione della campagna vaccinale spostando la responsabilità nelle mani dell’esercito.

La domenica successiva a questa decisione, il 25 luglio 2021, migliaia di tunisini scesero in piazza a protestare contro il governo e i partiti. In serata il Presidente della Repubblica annunciò la destituzione del governo e la sospensione del parlamento, con l’esercito a impedire a Rached Ghannouchi, presidente dell’Assemblea dei Rappresentanti del Popolo e leader di Ennahda, di entrare nell’edificio.

Kais Saied

Quando nel 2019 Kais Saied si candidò alle elezioni Presidenziali il clima politico in Tunisia faceva i conti con una depressione sociale accentuata e una sfiducia dilagante. La prima legislatura frutto di libere elezioni fu segnata da una grande instabilità governativa e dall’inefficacia in politica economica.

La popolazione reagì con proteste e con la scarsa partecipazione alle elezioni amministrative del 2018. I partiti politici, anche quelli più popolari, non riuscirono in questi anni a radicarsi nella struttura sociale tunisina e ad incapsulare le linee di frattura che attraversavano il paese.

L’elettorato non fu coinvolto nella vita politica istituzionale e la popolazione incominciò a dubitare dell’efficacia delle strutture democratiche. La dialettica parlamentare, l’equilibrio dei poteri e la frammentazione degli interessi non hanno rappresentato il modo di garantire i diritti civili e sociali ma sono diventati sinonimo di collasso dello stato.

Nella corsa verso le elezioni presidenziali la fece da padrone un clima di sfiducia che Kais Saied riuscì a volgere a suo favore. Giurista affermato e autorevole, l’attuale presidente si presentò alle elezioni da vero e proprio outsider. Proveniente da una famiglia acculturata e benestante, Saied ha costruito la sua carriera come docente di Diritto Costituzionale, sedendo in cattedre sia dell’Università di Tunisi che in quella di Sousse e si è ritagliato uno spazio di autorevolezza importante nella scena pubblica tunisina.

La sua competenza gli ha permesso di stringere forti legami con la Lega Araba e di essere invitato a partecipare alle commissioni di esperti che avrebbero dovuto risolvere i problemi che la stesura della Costituzione poneva ai legislatori, come quello dell’autorità indipendente che garantisse la regolarità delle elezioni. Saied rifiutò di prendere parte a questo comitato, ma si mostrò da subito molto critico una volta che la Costituzione entrò in vigore.

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Kais Saied alla consegna del Dottorato honoris causa in Diritto romano, teoria degli ordinamenti e diritto privato del mercato all’Università La Sapienza di Roma, il 16 giugno 2021.

Come politico Saied si è dimostrato particolarmente scaltro. Nella campagna elettorale per le presidenziali, connotata da una marcata insofferenza verso i candidati espressione dei partiti politici, il professore di Diritto Costituzionale ha costruito un’immagine distaccata ma semplice. Candidato indipendente senza un’apparente strategia elettorale – non dialoga coi media, non raccoglie finanziamenti, non propone nessun programma politico – ha costruito la fiducia con l’elettorato attraverso i toni pacati e la chiarezza delle argomentazioni rispetto al ruolo dello Stato e del Diritto nel garantire la giustizia, l’uguaglianza e la libertà.

L’atteggiamento idealista di “Robocop”, soprannominato così per il suo stile austero e controllato, ha rappresentato la speranza di un netto distacco dal sistema politico gestito dai partiti agli occhi di un elettorato disilluso dalla corruzione, dal clientelismo e dall’inefficienza partitica. La pacatezza di Saied e la moderazione nel fare promesse hanno risvegliato i sogni popolari della rivoluzione, presentati però in un’ottica reazionaria che è stata definita “populismo normativo”.

In questo ideologia di governo ispirata alla democrazia diretta la prima e unica fonte d’autorità è la relazione tra il popolo e il potere, mediata dalla legge. Al centro di ogni politica c’è l’ascolto degli umori e delle richieste popolari. Allo stesso tempo però la libertà d’azione politica è vincolata alla figura di un governante benevolo e magnanimo in particolare sintonia con il popolo che lo segue. Il rapporto tra il governante e il popolo ha la responsabilità di indirizzare, senza le intermediazioni dei corpi sociali ma solo attraverso la guida delle leggi, la nazione verso i migliori destini.

Descritto dai suoi colleghi universitari come “intransigente e inesorabile“, Saied ha da subito puntato a mettere in luce le contraddizioni che un sistema governativo centralizzato basato sui partiti politici è in grado di generare. “Ci si può fidare del popolo tunisino per governare se stesso. Ed è mio compito fornire loro gli strumenti necessari”, ha detto alla rivista francese Jeune Afrique in vista delle elezioni di settembre 2019.

La sua storia politica, legata a doppio filo alle assemblee popolari spontanee e diffuse localmente che avevano dato linfa alla Rivoluzione dei Gelsomini, ha permesso di tenere in scarsa considerazione le sue posizioni reazionarie e conservatrici sui diritti civili, oscurate dalla chiarezza del progetto istituzionale.

Saied e la sua rete hanno sostenuto una rivitalizzazione delle assemblee locali, emerse spontaneamente durante la rivoluzione del 2011. Nel loro progetto i membri di queste sarebbero eletti con un mandato revocabile. Ogni assemblea locale avrebbe estratto a sorte il rappresentante a livello regionale. I consigli regionali eleggerebbero quindi i loro rappresentanti a livello centrale, per rispecchiare meglio i desideri locali. 

Questa progetto di democrazia diretta non prevede dunque un ruolo per i partiti politici, soppiantati dall’organizzazione territoriale e dal coinvolgimento dei cittadini. E in questo senso Saied è da subito entrato in conflitto con i membri dell’Assemblea dei Rappresentanti del Popolo e con la loro espressione governativa.

Tutto ciò ha portato Saied a trionfare al ballottaggio del 13 ottobre 2019, con il 73% dei consensi di poco più della metà degli elettori tunisini.

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Kais Saied e sua moglie Ichraf Chebil alla cerimonia di insediamento, Tunisi, 13 ottobre 2019. AFP

Alla prova presidenziale Saied ha operato dando instabilità all’Assemblea e concentrando i poteri verso la sua figura. Nel conflitto istituzionale che si è abbattuto sul paese il Premier Mechichi, un tempo suo alleato, e il Presidente dell’Assemblea Ghannouci si sono accordati per un rimpasto di governo che eliminasse i ministri fedeli a Saied. Il Presidente a questo punto si è rifiutato di presiedere la cerimonia di giuramento dei nuovi ministri, accusandoli di conflitto d’interesse.

La paralisi politica che ne è conseguita ha determinato un forte aumento della disoccupazione nel primo trimestre del 2021 e l’esplosione di una violenta ondata di Coronavirus che ha fatto collassare il sistema sanitario e la campagna vaccinale.

Questa situazione ha creato il pretesto per delegittimare gli organi democratici previsti dalla costituzione, utilizzando la costituzione stessa. Saied ha infatti invocato l’articolo 80, che autorizza il Presidente a prendere «tutte le misure necessarie» in caso di «minaccia imminente che metta a repentaglio la Nazione, la sicurezza e l’indipendenza del Paese». L’unico organo che potrebbe giudicare se l’articolo 80 è stato applicato correttamente è la Corte Costituzionale, che ancora non esiste.

Il referendum costituzionale

E così il 25 luglio 2021 Saied ha sospeso l’Assemblea dei Rappresentanti del Popolo, sciolto il governo e assunto i poteri esecutivi. Successivamente il Presidente ha poi rincarato la dose: imposizione del coprifuoco, assunzione dei poteri di emergenza – tra cui quelli giudiziari, epurazione di alti funzionari – compresi pubblici ministeri e giudici, chiusura della sede tunisina di ‘Al Jazeera‘, licenziamento del direttore della TV di Stato, promessa di un giro di vite contro la corruzione, sospensione del Consiglio superiore della Magistratura e imprigionamento di leader dell’opposizione.

Nei successivi due mesi Saied ha impostato la struttura di una Repubblica semipresidenziale, indirizzando verso sé i poteri esecutivi e legislativi e nominando ministri fedeli. Alla fine di settembre è avvenuta la nomina di Najla Bouden Romdhane come Primo Ministro – la prima premier donna del mondo arabo – del “Governo del Presidente” incaricato di traghettare il paese fuori dalla crisi economica, sanitaria ed istituzionale.

Il vero obiettivo di questa fase di transizione era però la riforma costituzionale, proposta agli elettori in una data simbolicamente importante, esattamente un anno dopo la prova di forza del Presidente: il 25 luglio 2022. Saied ha invitato i tunisini a votare “sì” per “correggere il corso della rivoluzione”.

Il 20 maggio il presidente Saied ha annunciato che Sadok Belaïd, ex professore di diritto costituzionale, sarebbe stato a capo di un comitato per redigere una “nuova costituzione per una nuova repubblica”. Dopo un mese il comitato ha presentato alla presidenza la bozza proposta. Il 30 giugno, la Gazzetta Ufficiale ha pubblicato la bozza di costituzione, affermando che sarebbe stata sottoposta a referendum il 25 luglio.

Qualche giorno dopo, però, Belaïd ha ripudiato pubblicamente la bozza pubblicata in Gazzetta, affermando che non era quella preparata dal suo comitato. In un’intervista a Le Monde, Belaïd ha dichiarato che il presidente dovrebbe ritirare la bozza, definendola “pericolosa”, “regressiva” e caratterizzata da una “tendenza a tiranneggiare”.

La proposta di costituzione presentata ai tunisini attribuisce enormi poteri alla carica del presidente e annichilisce il sistema di bilanciamenti e controlli incrociati tra potere esecutivo, legislativo e giudiziario. Alcuni analisti hanno notato che la nuova Costituzione riproporrebbe un equilibrio simile a quello che c’era in Tunisia sotto la dittatura di Ben Ali, che governava il paese dal 1987.

La nuova costituzione dà al presidente il potere di nominare e rimuovere i membri del governo e del Consiglio superiore della Magistratura, di promulgare direttamente le leggi e in particolare di approvare la legge di bilancio, oltre a confermare i poteri già previsti in termini di politica estera e difesa. La bozza fa riferimento a una “funzione giudiziaria” (art. 117) piuttosto che alla “autorità giudiziaria” menzionata nella Costituzione del 2014 (sezione quinta).

La proposta presentata al referendum mantiene il limite di due mandati per la presidenza (art. 90), ma elimina la disposizione della Costituzione del 2014 secondo cui la Costituzione non può essere modificata per aumentare il numero di mandati (art. 75). L’articolo 90 comunque non è valido nel caso in cui sia dichiarato lo stato di eccezione a fronte di “pericolo imminente” (art. 96). L’articolo 96 può essere attivato senza bisogno di alcuna ratifica da parte di altri organi e non ha il vincolo di un limite temporale, a differenza del controllo che la Corte costituzionale esercitava secondo la Costituzione del 2014 una volta che lo stato di eccezione superava la durata di 30 giorni (art. 80).

Per quanto riguarda il sistema della rappresentanza il presidente può sciogliere il Parlamento, mentre non esistono meccanismi di impeachment per la sua rimozione, misura invece prevista dalla Costituzione del 2014 in caso di “palese violazione della Costituzione” (art. 88). Verrà poi creata una seconda camera del Parlamento accanto all’Assemblea dei rappresentanti del popolo, che si chiamerà Consiglio delle Regioni e dei Distretti. Questo Consiglio sarà composto da persone elette dai membri dei consigli regionali e distrettuali anziché con elezioni suffragio universale (art. 81).

L’Assemblea dei Rappresentanti del Popolo mantiene la funzione legislativa e sarebbe ancora in grado di approvare una mozione di sfiducia nei confronti del governo ma la procedura sarebbe più ardua (art. 115) rispetto alla Costituzione del 2014 (art. 97). Il testo stabilisce che i membri dell’Assemblea sono eletti attraverso elezioni libere, dirette e generali (art. 60).

Anche l’immunità dai procedimenti giudiziari dei membri del Parlamento è significativamente ridotta (artt. 65 e 66 del progetto di Costituzione, rispetto agli artt. 68 e 69 della Costituzione del 2014). Ad esempio l’immunità non è prevista per le accuse di “calunnia” e “diffamazione”, indipendentemente dal fatto che il discorso offensivo sia pronunciato all’interno o all’esterno dell’assemblea.

Per quanto riguarda i diritti civili e sociali l’art. 41 nega il diritto allo sciopero e l’art. 5 stabilisce che lo stato ha il compito di realizzare i valori islamici nei compiti di difesa della patria. Sebbene sia stabilito che questo debba essere fatto entro una cornice di intervento democratica, la formulazione vaga di questo principio fa sì che esso potrebbe essere utilizzato per giustificare limitazioni dei diritti, come la discriminazione di genere o per orientamento sessuale, sulla base di precetti religiosi.

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Persone riunite sul viale Habib Bourguiba a Tunisi durante le proteste contro il referendum. [Yassine Gaidi/Agenzia Anadolu]

Per Human Rights Watch la Costituzione del 2014 è stata il risultato di un processo di redazione trasparente durato due anni, che ha coinvolto giuristi, partiti politici e società civile, prima che l’Assemblea nazionale costituente la approvasse nel 2014.

La proposta di costituzione di Saied è stata invece redatta da un gruppo di lavoro i cui membri sono stati nominati da lui stesso e che hanno lavorato per quattro settimane a porte chiuse, sollecitando pochi o nessun contributo da parte di altri. Inoltre la pubblicazione della bozza solo tre settimane prima del referendum nazionale ha lasciato poco tempo al dibattito pubblico.

Un futuro da scrivere

Alla fine il referendum ha visto una scarsissima affluenza (27,5%), probabilmente per via del boicottaggio annunciato dai partiti politici. Questo non ha evitato però la vittoria della proposta costituzionale del Presidente Saied, dato che non esisteva un quorum.

Con il consenso del 92,3% dei votanti, la struttura istituzionale dello stato tunisino è cambiata definitivamente, aprendo una nuova stagione politica. Le reazioni nella popolazione sono state contrastanti: c’è chi è sceso in strada per festeggiare e chi per protestare, con scontri che hanno portato a numerosi arresti.

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Molti sono scesi in piazza a festeggiare alla notizia della vittoria elettorale del Presidente Saied (AFP)

È innegabile che il sistema disegnato dalla nuova Costituzione faccia tabula rasa delle garanzie contro l’abuso di potere politico e della separazione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. Queste garanzie sono essenziali perché i cittadini abbiano modalità democratiche per accertare le responsabilità dei governanti e rivendicare giustizia.

Ma se giudicassimo solo entro questa cornice valuteremo la trasformazione attraversata dallo stato tunisino con uno sguardo miope, fuori dalla storia. Bisogna tenere in considerazione le richieste popolari che Saied è riuscito a cogliere, raccogliendo un malessere sociale ed economico diffuso e convincendo il suo elettorato delle responsabilità dei partiti politici.

A ben vedere questa dinamica non si riduce alla Tunisia. La crisi della democrazia rappresentativa parlamentare è ormai un dato storico conclamato che in nazioni come quella nordafricana, poco abituata alle macchinose dinamiche politiche dei partiti, si presenta palesemente, ma che ormai è riconoscibile anche nelle più solide democrazie occidentali.

Il consenso accumulato da Saied è reale e ha un fondamento sociale forte e positivo, non basato sulla paura. La sua proposta potrebbe diventare un esperimento di democrazia diretta radicata sul territorio e fortemente dinamica, lasciando alle spalle della storia tunisina il clientelismo e la corruzione dei partiti, incapaci di costruire uno stato efficace. In Tunisia lo si ha ben presente, ed anche per questo i corpi sociali, come i sindacati o le associazioni di categoria, non si sono opposti ma piuttosto si sono limitati ad auspicare una transizione pacifica e democratica.

Riprendendo le dichiarazioni di H.A. Hellyer, studioso ed analista del Carnegie Endowment for International Peace, “la storia dei cambiamenti rivoluzionari in tutto il mondo è così: un passo avanti, un passo indietro e così via. La Tunisia, e in generale il mondo arabo, non è diverso. I fattori che hanno portato alla Rivoluzione dei Gelsomini rimangono, in Tunisia ma anche in tutto il resto della regione. Non misuriamo i cambiamenti rivoluzionari in anni, ma in decenni e persino in tempi più lunghi.”

Non bisogna però dimenticare la storia di questi ultimi anni e il contesto internazionale nella quale si svolge. Quello che è stato definito un autogolpe (o golpe costituzionale, o acquisizione in carica) presenta forti omologie con tendenze autoritarie sempre più diffuse in questo momento storico.

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Poliziotti tunisini arrestano un manifestante durante una manifestazione di protesta qualche giorno prima del referendum. [FETHI BELAID AFP]

L’avanzata illiberale, ufficializzata dalla famosa intervista al Financial Times di Vladimir Putin, spaventa soprattutto alla luce di notizie come quelle provenienti dalla Tunisia. In questo decennio nel quale gli equilibri internazionali verranno ridiscussi un cambiamento come quello apportato da Kais Saied non può che contribuire alla preoccupazione di chi si trova a sperare nella diffusione della libertà dei popoli e della pace.

Le omologie illiberali, i legami oscuri con la Lega Araba e i suoi equilibri, gli interessi politici contrastanti, il posizionamento geografico della Tunisia e la presenza simultanea e intrecciata di situazioni di crisi sul piano climatico, migratorio e alimentare lasciano la sensazione dell’ennesima delusione dei sogni democratici, che solo dieci anni fa sembravano incontrastabili.

Solo il futuro potrà dirci se il referendum del 25 luglio sarà la sconfitta della rivoluzione o piuttosto una nuova pagina di essa. Non resta che augurarsi che nelle narici e nei cuori dei tunisini sia rimasto quell’esaltante odore di gelsomino che non molto tempo fa aveva conquistato anche molti di noi.

Alessandro Luciano

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