La sapienza indigena ci insegna a conservare la natura

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Politica e scienza iniziano a convergere: il modo migliore per perseguire la conservazione degli ecosistemi è affidarsi alla sapienza indigena sulla natura.
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Finalmente anche i grandi congressi politici sembrano riconoscere ciò che antropologia ed ecologia hanno capito da molto tempo: il modo migliore per perseguire la conservazione della natura e degli ecosistemi è affidarsi all’etica, alle politiche e alle strategie che derivano dalla sapienza indigena.

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Il primo Congresso dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN) sulle aree protette in Africa (APAC) si è concluso il 23 luglio 2022.

Oltre 2.000 delegati si sono riuniti a Kigali, capitale del Ruanda, dal 18 al 23 luglio 2022 per il primo storico evento dedicato alla progettazione di un futuro all’insegna della conservazione degli ecosistemi del continente africano, da cui la storia umana ha avuto origine.

L’Africa, con la sua varietà di sistemi naturali, è il continente più colpito dai cambiamenti climatici, sebbene sia responsabile di una percentuale minore del 4% delle emissioni di Co2 e gas serra.

Nella dichiarazione conclusiva di cinque pagine, chiamata “Kigali call to action“, i partecipanti al Congresso si impegnano per un sostegno speciale alle popolazioni indigene dell’Africa.

Questo documento di portata storica fornisce le linee guida per un insieme di azioni mirate a preservare la saggezza, le tradizioni, le conoscenze scientifiche e tradizionali e gli approcci consuetudinari che consentono l’efficace conservazione della natura, della cultura, dei mezzi di sussistenza e del benessere umano.

Il piano di conservazione

Per fare ciò è stato predisposto un programma di conservazione ad hoc, chiamato A-PACT (che sta per A Pan African Conservation Trust). Sebbene si chieda ai governi di finanziare questo programma il fondo sarà gestito da un organismo indipendente. Secondo Frederick Kwame Kumah, vicepresidente della African Wildlife Foundation, questo servirà a “evitare inutili influenze politiche“.

La governance di questo fondo sarà però distribuita tra tutte le principali parti interessate: i governi statali, gli organismi internazionali, le organizzazioni non governative e del settore privato che vi contribuiranno. L’auspicio è che l’investimento pubblico in questo fondo diventi presto la prima voce a bilancio, liberando così le popolazioni africane dal rapporto con interessi privati.

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Il Ministro per l’Ambiente della Repubblica del Ruanda, Mujawamariya Jeanne d’Arc, ha annunciato alla conferenza stampa di chiusura dei sei giorni dell’APAC che il Presidente Paul Kagame si è già impegnato a partecipare al fondo. (Immagine: IGIHE)

L’importanza della dichiarazione unanime conclusiva sta nel riconoscimento esplicito delle ingiustizie storiche e della centralità e priorità del pieno coinvolgimento delle popolazioni indigene nel perseguimento di obiettivi a lungo termine di conservazione ecologica.

Nella risoluzione è possibile leggere: “Noi, partecipanti al Congresso inaugurale delle aree protette dell’IUCN in Africa, ci impegniamo ad investire attraverso sovvenzioni dirette quelle attività che migliorano la governance e l’efficacia della gestione degli ecosistemi e che possono catalizzare il coinvolgimento diretto delle popolazioni indigene, delle comunità locali, delle donne e dei giovani “.

L’Appello di Kigali rappresenta un pilastro della speranza di noi popoli indigeni e mi auguro che i governi non perdano tempo a realizzare ciò che hanno promesso“, ha dichiarato John Kamanga, direttore esecutivo dell’Associazione dei proprietari terrieri del South Rift, con sede in Kenya.

I custodi della foresta

A quel tempo la nostra terra si estendeva fino alla Trans-Nzoia, che era Katale, oggi conosciuta come Kitale, dove risiedevano i nostri antenati… Quando gli inglesi arrivarono, dichiararono quella parte di terra come area di insediamento dei bianchi. Era il 1895“, ricorda Cosmas Murunga. “Ora non abbiamo più nulla. Il governo dice che siamo qui illegalmente e che dovremmo andarcene

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L’anziano Ogiek Cosmas Murunga osserva un’area di terra ancestrale all’interno del Parco Nazionale del Monte Elgon che, a suo dire, è stata sottratta alla sua comunità dal Servizio Forestale del Kenya (KFS) nel 2016 (Foto: Stephen Nderitu)

Cosmas Murunga è un anziano della tribù Ogiek. Questa tribù fa risalire la sua presenza nella foresta Mau intorno al monte Elgon, un vulcano inattivo, all’alba dei tempi. Circa 4.000 Ogiek del monte Elgon risiedono a Chepkitale, a pochi metri dal loro villaggio ancestrale di Trans-Nzoia, ora parte della città di Kitale, in Kenya. Un tempo gli Ogiek possedevano 91.000 ettari di terra, che si estendevano dalle pendici del vulcano fino al limitare della foresta.

I colonialisti britannici arrivarono in questo territorio, ora diviso tra l’Uganda e il Kenya, e incominciarono a erigere confini, deforestare, allontanare o deportare le tribù che lo abitavano. Il pretesto era ripulire l’area per ridurre il rischio di incendi, lo strumento la creazione di una riserva naturale, l’interesse – ben più prosaico – era quello di mettere a profitto il territorio attraverso colture intensive e alloctone.

Quando i nostri padri si resero conto di essere prigionieri nella loro terra, si ribellarono e si allontanarono dalla Trans-Nzoia, costretti verso questa montagna“, aggiunge Murunga. La storia proseguì con alterne vicende: al riconoscimento dell’appartenenza e della sovranità degli Ogiek da parte della autorità britanniche seguì un nuovo ciclo di espropriazioni, dopo l’indipendenza del 1963.

Il Parco Nazionale del monte Elgon divenne lo strumento con cui lo stato kenyota relegò gli Ogiek in territori sempre più ridotti, e sempre meno autonomi.

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Una donna Ogiek. Sullo sfondo la sua casa, demolita durante gli sfratti illegali. (Immagine: © Survival)

Questo modello di espropriazione è continuato fino ai giorni nostri. Murunga – anch’egli vittima di sgomberi forzati – racconta che le loro case sono state bruciate lo stesso anno in cui la Costituzione ha riconosciuto i loro diritti alle terre ancestrali, nel 2016.

Gli animali sono morti nelle case; hanno spostato gli animali sopravvissuti per venderli senza consultarci. Sono state prese molte proprietà“, ricorda.

I diritti negati

Cosmas Murunga è rappresentante del Consiglio direttivo di Chepkitale-Ogiek. Questo non è il solo organismo che si occupa di rappresentare la comunità Ogiek all’esterno. E gli Ogiek non sono gli unici indigeni che devono organizzarsi politicamente per poter vivere in maniera tradizionale, nei territori e nei modi che si tramandano da generazioni.

Alla metà di giugno la Chepkitale Indigenous Peoples’ Development Project – una organizzazione no-profit che si occupa delle battaglie legali della popolazione Ogiek – ha ospitato i rappresentanti di altre sette comunità indigene provenienti da Kenya, Uganda e Tanzania. Le assemblee tenutesi avevano lo scopo di raggiungere un accordo sui messaggi chiave che i leader indigeni delle comunità Ogiek, Maasai, Batwa, Aweer, Benet, Sengwer e Yaaku avrebbero portato al congresso dell’APAC di Kigali.

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I membri di otto gruppi indigeni di Kenya, Uganda e Tanzania partecipano all’incontro annuale ospitato dal Chepkitale Indigenous Peoples’ Development Project nel giugno 2022. L’incontro aveva lo scopo di raccogliere le istanze di una dichiarazione da presentare al Congresso delle aree protette dell’Africa. (Immagine: Stephen Nderitu)

Tutte queste comunità hanno problemi simili, in cui la saldatura tra interessi economici e poteri statali tenta di relegarle al di fuori degli habitat storici, nei quali la loro forma di umanità si è sviluppata. Queste problematiche prendono la forma di una spirale: la maggior parte delle popolazioni indigene del mondo (più di un miliardo e mezzo di esseri umani) vive in aree con grande biodiversità, che sarebbe importante preservare.

Oltre la metà (56%) delle persone che vivono in aree importanti per la conservazione della biodiversità si trova in Paesi a basso e medio reddito. L’onere della conservazione della biodiversità ricade in modo sproporzionato sulle popolazioni rurali povere dei paesi a basso e medio reddito. Gli abitanti dei Paesi ad alto reddito invece costituiscono solo il 9 per cento della popolazione di importanti aree di aree di conservazione della biodiversità.

Ciononostante questi ultimi, per via delle asimmetrie nei rapporti economici e politici globali, beneficiano maggiormente delle risorse naturali, inquinando di più. Il risultato è che la gran parte dei territori ad alta biodiversità è sempre più alienata alle cure e agli stili di vita delle popolazioni che li abitano da sempre con cura, rispetto ed equilibrio. E più lo squilibrio di potere aumenta, meno le comunità hanno strumenti per difendere i loro diritti.

Si stima che le popolazioni locali indigene abbiano rivendicazioni fondate su oltre la metà delle terre emerse, ma i loro diritti di proprietà sono riconosciuti solo sul 10% del territorio mondiale. Affrontare questo divario e garantire i diritti fondiari e territoriali consuetudinari di questi gruppi dovrebbe essere una componente centrale di qualsiasi strategia, a qualsiasi livello, volta a proteggere o conservare gli ecosistemi naturali.

La sapienza indigena

Al congresso di Kigali, Cosmas Murunga, in qualità di rappresentante degli anziani, ha presentato 144 linee guida sviluppate dal Consiglio direttivo di Chepkitale-Ogiek per salvaguardare l’ambiente e promuovere la coesistenza tra le persone e la fauna selvatica nella foresta di Mau.

Una delle 144 linee guida suggerisce che le aree di pascolo siano divise in zone e utilizzate alternativamente durante le stagioni umide e secche, con alcune aree da utilizzare solo con il consenso dell’intera comunità. Nel suggerimento, le aree di terra sono protette dalla comunità nel suo complesso.

Un’altra proposta si concentra sull’apicoltura, una delle principali fonti di sussistenza alimentare e sociale degli Ogiek. Si afferma che l’apicoltura e la raccolta del miele devono garantire la protezione delle api, degli alveari e degli alberi. La comunità designa i mesi di marzo e aprile come mesi di raccolta del miele per mantenere la biodiversità, secondo il consiglio della comunità stessa.

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Uno dei 2.000 alveari di Chepkitale. Ogni alveare è fatto di bambù e avvolto in uno spago con un favo all’interno. Un lungo pezzo di corteccia d’albero è posto sopra l’arnia per proteggerla dalla pioggia. Sulle pendici della montagna, ad altezze differenti, gli alberi fogliano in stagioni diverse cosicché tradizionalmente gli Ogiek possono raccogliere miele durante tutto il corso dell’anno. Il miele, che ha un sapore che varia in base al periodo e alla stagione in cui è stato raccolto, gioca un ruolo centrale nella società Ogiek: viene per esempio utilizzato come alimento, per la preparazione della birra e anche come merce di scambio con i popoli vicini, fuori dalla foresta.(Immagine: Nicole Harris/RRI)

L’idea Ogiek della relazione tra uomo e natura è rispecchiata nelle 144 linee guida. Ad esempio si può leggere che “è vietato tagliare qualsiasi albero con le api. Se uno taglia l’albero, sarà maledetto… Se l’albero viene tagliato per uno scopo diverso e si scopre che contiene miele, il colpevole parla all’albero per ottenere il perdono, in modo che la maledizione non si ripercuota su di lui“.

La vita degli Ogiek non potrebbe esistere senza la diversità del territorio in cui abitano. Per questo la sacralità, la regolazione della vita civile, l’educazione dei piccoli, il sistema penale, i proverbi e le canzoni popolari, le storie che ci si racconta e le danze con cui si fa festa, sono tutti elementi culturali costruiti attorno al bisogno di scambiare e trasmettere conoscenze sulla foresta, che ne preservino l’integrità rispettandone gli equilibri.

La conservazione degli equilibri naturali non è un’attività separata dalle altre, ma è la sola attività che permette agli Ogiek di poter vivere. Gli equilibri da preservare hanno talvolta la forma di alleanze con altre specie.

I piccoli alberi di cui si nutrono gli elefanti sono considerati inutili dal servizio forestale perché non possono essere venduti come legname. Ma per noi sono fondamentali per la produzione di miele. E sono fondamentali anche per gli elefanti“, dice Peter Kitelo, direttore esecutivo del Chepkitale Indigenous Peoples’ Development Project, dimostrando l’interconnessione tra mondo umano e mondo naturale secondo gli Ogiek.

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Una piantagione alloctona in un area gestita dal Servizio Forestale del Kenya (KFS) con il sistema shamba che ha portato alla sostituzione di foreste intatte con altre tipologie di piante più redditizie sul commercio. Questo ha fatto sì che l’Elefante africano delle foreste, una specie in via di estinzione, migrasse verso le zone gestite dagli Ogiek, dove per via della produzione del miele la foresta autoctona viene preservata. (Immagine: Nicole Harris/RRI)

La nostra storia ci dice che siamo qui da tempo immemorabile. La biodiversità di questa terra è ciò che siamo“, dice Cosmas Murunga. “Vogliamo mantenere l’integrità della nostra terra. Non vogliamo essere ricchi. Vogliamo essere gentili con i nostri animali. Vogliamo essere rispettosi della nostra vegetazione. L’ambiente è l’orgoglio del nostro popolo“.

La sapienza indigena è sia il mezzo che il fine da perseguire

L’ultimo report dell’IPBES (Intergovernmental science-policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services) riconosce le popolazioni indigene e le comunità rurali come fattori chiave per la conservazione della fauna selvatica.

L’uso della fauna selvatica da parte delle popolazioni indigene e delle comunità locali e le ampie conoscenze, pratiche e credenze in merito possono davvero salvare la biodiversità, e con essa la natura.

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Il membro della comunità Ogiek Moses Ndiema mostra la corteccia di un albero trovato sul Monte Elgon che può essere usato per curare le ulcere gastriche. Conoscenze indigene come questa, che sottolineano il valore delle specie presenti nelle terre ancestrali, sono una parte importante dello sforzo globale per la conservazione della biodiversità. (Immagine: Stephen Nderitu)

Le politiche che sostengono la sicurezza dei diritti fondiari e l’accesso equo alla terra, alla pesca e alle foreste, nonché la riduzione della povertà, creano le condizioni per un uso sostenibile della fauna selvatica“, si legge nel rapporto.

Le evidenze sono ormai acclarate: quando si parla di comunità indigene si sta parlando di forme di umanità in cui il benessere personale, il governo sociale e l’efficacia della conservazione naturale sono dimensioni strette da un legame inscindibile. A guardare gli elementi chiave di queste comunità come i sistemi di conoscenza, le istituzioni consuetudinarie e la gestione delle differenze sociali si scorge una stessa dinamica che costruisce il benessere dei singoli, dei gruppi e dell’ambiente.

Il bracconaggio si è ridotto dell’85% nel Parco Nazionale dei Vulcani, in Ruanda, negli ultimi 15 o 20 anni dopo che le comunità sono state coinvolte nelle misure di conservazione. A Taiwan un villaggio indigeno Tsou ha ripristinato una foresta nazionale statale degradata, autoregolando collettivamente e volontariamente l’uso delle risorse e resistendo alle pressioni commerciali esterne. In Nepal la gestione efficace di un habitat ripariale è stata attuata dalle comunità locali a basso reddito attraverso lo sviluppo autonomo di nuove istituzioni locali orientate alla conservazione. In Norvegia le conoscenze dei pescatori indigeni Lapponi sono state fondamentali per sventare il rischio del collasso dell’allevamento ittico.

Uno studio firmato da 17 scienziati provenienti da istituzioni di tutto il mondo ha preso in esame più di 3000 articoli che studiavano le influenze delle diverse tipologie di governance sulla conservazione degli ecosistemi. Gli scienziati hanno poi selezionato i 169 tra questi che presentavano prove empiriche sul benessere sociale delle comunità indigene locali, prove empiriche sull’efficacia della conservazione naturale e prove empiriche sui legami tra di essi.

È stato possibile constatare che più della metà dei progetti di conservazione controllati localmente si traducono in uno spiccato benessere sia sociale che ecologico mentre solo il 3% ha conseguenze negative per queste due dimensioni. Quando invece il controllo dei progetti di conservazione proviene dal di fuori delle comunità locali la percentuale del benessere si ferma al 15,7% mentre quella delle conseguenze negative sale al 34,3%.

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Un uomo Ogiek mangia del miele appena raccolto dagli alveari posizionati nei bassi alberi della foresta di Mau. Questi alberi sono fondamentali per l’alimentazione dell’Elefante della foresta africana. (Immagine: © rootsofafrika.co)

Non c’è bisogno di garanzie scientifiche, paternalistiche pacche sulle spalle o stupite affermazioni di approvazione. Chi di mestiere studia le differenze tra umani lo ha capito già da tempo: i tempi lunghi della storia naturale hanno costruito infinite forme bellissime di coadattamento. Talvolta al presuntuoso occhio occidentale queste forme si presentano con un tratto magico, talvolta con un tratto buffo, talvolta con un tratto violento. Quasi sempre sono incomprensibili.

Occorre però dirsi chiaramente che il punto non è capire o accettare, dall’alto di una inesistente superiorità, questi differenti modi di essere umani. Possono spaventare o ripugnare, ma nonostante ciò è necessario rispettarli, e proteggerli. Essi non sono solo il mezzo strumentale con cui perseguire un fine di conservazione naturale. Il rispetto verso questi altri mondi umani è il fine stesso verso cui, oggi più che mai, bisogna tendere. Per il bene di tutti.

di Alessandro Luciano

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