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«When I was a student, my MFA program had all white professors except for one. […] I didn’t feel safe when I was in the other professors’ classes, because I wasn’t»,1«Quando ero studentessa, il mio programma di Master in Belle Arti aveva tutti professori bianchi, tranne uno […] Non mi sentivo al sicuro, perché non lo ero».  racconta Randa Jarrar, l’autrice della raccolta Io, lui e Muhammad Ali, in un’intervista. «One classmate wrote a short story about a white woman, who tries to please her Arab boyfriend by getting henna; the boyfriend slowly turns into a camel and she has to put him in a zoo. This story was deemed not only acceptable, but awesome by my white professors. I never ever want my students to feel this lack of safety».2«Un compagno di corso scrisse un racconto su una donna bianca che prova a compiacere il suo ragazzo facendosi un henné; il ragazzo pian piano si trasforma in un cammello e lei deve metterlo in uno zoo. Il racconto fu considerato non solo accettabile, ma persino incredibile, dai miei professori bianchi. Non voglio mai e poi mai che i miei studenti percepiscano questa mancanza di sicurezza».

Classe 1978, Jarrar è nata a Chicago, da madre greco-egiziana e padre palestinese. È cresciuta in Kuwait, Egitto e Texas, e oggi vive a Los Angeles, dove è scrittrice, attrice, stand-up comedian e insegnante di scrittura creativa e letteratura arabo-americana. Col suo primo romanzo, La collezionista di storie (Piemme, titolo originale: A map of home), ha vinto l’Arab American Book Award. La raccolta di racconti Io, lui e Muhammad Ali (titolo originale: Him, me, Muhammad Ali), uscita negli Stati Uniti nel 2016 per Sarabande e in Italia nel 2022 per Racconti Edizioni nella traduzione di Giorgia Sallusti, è stata insignita del PEN Oakland Award e dello Story Prize Spotlight Award.

Una bambina dal nome Qamar (“luna”, in arabo) vuole la luna a tutti i costi; la vuole, la vuole davvero: vuole che la luna scenda sul tetto del suo appartamento di Alessandria e vada da lei. «Il vicinato» deve beccarsi la «dose» di Qamar e della sua fiera determinazione fin dal suo «nono compleanno». Qamar cresce, «la Gente» la guarda, la Gente la giudica, sino a quando la ragazza non si ribella definitivamente: «“Voglio la luna”, gridò lei in risposta […] “E non ho bisogno dei vostri consigli, stavolta”».

Due donne egiziane di estrazione diversa si incontrano ad Alessandria, in uno degli appartamenti che una delle due pulisce per i turisti e che l’altra visita d’estate per riposarsi dal lavoro di ricerca negli Stati Uniti. Entrambe si desiderano, entrambe vogliono qualcosa della vita dell’altra. Un piccolo falco viene interrogato con l’accusa di essere una spia israeliana; il suo villaggio di origine è Aqraba, sopra Gerusalemme, e un giorno «Volando indietro verso Aqraba, fui catturato da studenti universitari di Tel Aviv. […] mi agganciarono un braccialetto metallico intorno a una zampa. […] Ad Aqraba tutti erano arrabbiati con me perché ero stato catturato dagli israeliani. […] Non c’è più nulla per me ad Aqraba».

Nel racconto che dà il nome alla raccolta, una giovane donna araba che vive a Brooklyn deve dare sepoltura alle ceneri del padre, perché lui «diceva di voler essere sepolto con gli antichi re africani […] accanto alla grande piramide di Cheope. Io cercavo di dissuaderlo dicendo che le piramidi erano pacchiane». Il viaggio che la giovane intraprende diventa la ricostruzione di un puzzle di pezzi mancanti, persi nella diaspora, perché «Quando la gente lascia un luogo all’improvviso, comincia a credere di non avere più una storia». La ricerca di una degna sepoltura per il padre è la ricerca del luogo a cui appartiene il passato, il presente, e quello che c’è in mezzo: l’irrisolto tra ciò «che era rimasto di mio padre, e cosa rimaneva di me».

Questi sono solo alcuni dei personaggi dei tredici racconti di Io, lui e Muhammad Ali. Le protagoniste, quasi tutte donne, si muovono in quello che è stato visto come realismo e fiaba; sono storie, infatti, che se da una parte rispondono all’esigenza rappresentativa delle comunità marginalizzate e oppresse che raccontano, dall’altra, tramite gli strumenti trasformativi del surreale e del simbolico, veicolano messaggi di cambiamento.
Jarrar porta sul palco donne ripudiate dal padre quando restano incinte, donne musulmane e lesbiche, donne trans, migranti, povere, donne e uomini la cui identità in diaspora si manifesta su assi differenti e interconnesse – culturali, religiose, geografiche, di genere. Da attivista e scrittrice intersezionale, Jarrar mostra come le società in cui vivono, che le stigmatizza e mette a repentaglio, faccia leva su ciascuno di questi elementi. Loro, però, non soccombono. Come Qamar, la bambina che vuole la luna, scuotono il lettore per essere viste, rispettate. Sono fiere, spregiudicate, orgogliose.

Vanno avanti nonostante l’oppressione, come la ragazza araba che rimane incinta di James pochi anni dopo essersi traferitasi negli USA con tutta la famiglia. «Un mozzicone di sigaretta aveva accidentalmente appiccato un piccolo fuoco tra i miei capelli; lui lo ha spento schiaffeggiandomi ripetutamente la testa. […] avrei dovuto capirlo già da allora che non era la persona con cui fare un figlio». Confessa la cosa alla famiglia e Baba la ripudia. Lei, però, non cede al padre e si rifiuta di interrompere la gravidanza, né soccombe a James incassando la violenza. «Gli do uno schiaffo. Mi dice stupida araba di merda e cerca di mollarmene uno anche lui. Io gli do un calcio sulle palle e me torno in macchina».
Jarrar è una stand up comedian; l’umorismo, una delle armi principali delle protagoniste della raccolta. Giorgia Sallusti, con la sua traduzione, è riuscita brillantemente nel rendere il ritmo umoristico e lo sfalsamento di registri e timbri da cui scaturisce l’ironia. «As a queer, Muslim, Palestinian-American and proud fat femme»,3«Come queer, musulmana, palestino-americana e orgogliosa donna grassa» Jarrar, attivista intersezionale, fa vera satira, quella che non ha bisogno di dileggiare le minoranze, le disabilità, di coprirsi dietro il dito della commedia per consolidare e rafforzare i sistemi di potere.
«Ogni fiume ha la sua fonte, il suo corso, la sua vita.», recita la poesia che Baba scrive alla figlia quando confessa la gravidanza.
«Mia amica, la nostra terra non è sterile.
Ogni terra ha il suo tempo per nascere,
Ogni alba un appuntamento con una ribelle…

Se avrai il bambino, noi non saremo più la tua famiglia.
Per noi sarai morta per sempre».

Se alcuni racconti riescono a riportare eventi tragici come questo attraverso un linguaggio ironico, altri, invece, sono più cupi, dolorosi. Sono storie realistiche di violenza e sopraffazione, e non possono essere altrimenti, anche quando a raccontarle è un bambino, anche quando il migliore amico del protagonista si chiama Magic ed è un piccione: il bambino e la sua famiglia vivono in Palestina, sotto i bombardamenti delle forze di occupazione israeliana. «Ad al-Zarqah, nel quartiere più povero di Gaza». Il bambino studia e memorizza i grandi poeti della tradizione letteraria palestinese, «tre diwan di versi, da Mutanabbi a Darwish […] A volte le lacrime si asciugavano agli angoli degli occhi a forza di ripetere i versi di Darwish: “Fuori dalla nostra patria / dalla nostra terra, dal nostro mare / dal nostro grano, dal nostro sale, dalla nostra ferita”. Alla cinquantesima o sessantesima ripetizione, non piangevo affatto ma li recitavo con rabbia e convinzione». All’esame di fine anno, è il primo studente della scuola. Baba decide di premiarlo e gli promette «una vera colombaia» per Magic. «Di legno. La dipingeremo e ci sarà abbastanza spazio per dieci piccioni».
Le piume arcobaleno di Magic, però, non possono niente contro la vita a Gaza. «La mattina dopo ritornai verso casa mia. I carri armati se n’erano andari, ma sul terreno c’era Magic il piccione, sanguinante e immobile, le sue piume arcobaleno schizzate di rosso […] Caddi in ginocchio, e mentre giacevo sulle macerie le viscere di Magic mi colarono sulle gambe, andando a raggiungere i pezzi di cadaveri e di case su cui ero seduto. […] Non volevo più vedere il mondo grigio e pastello che si stendeva intorno a me».

C’è il realismo del dolore e il simbolismo del cambiamento. La protagonista dell’ultimo racconto è «Zelwa. Sono per metà una donna – la metà superiore – e per metà uno stambecco transgiordano, anche se non sono mai stata a oriente dell’Atlantico». Zelwa è metà donna e metà animale e le sue metà sono significanti di tutti gli infiniti doppi e multipli dell’identità. Ma Zelwa capisce che «Non c’è unità nella dualità. Niente è uno e niente è doppio. Tu sei entrambi». Lo comprende e lo accetta, ma lo stesso non vale per suo padre, che vorrebbe per lei un’operazione che la salvi, la corregga. «Ho pianto – racconta Zelwa – non perché pensavo che avesse ragione, come avevo creduto un tempo, ma perché adesso sapevo che aveva torto, e mi è dispiaciuto per lui».  «Vorrei poter dire che da quel momento in poi tutte le ferite sono guarite, vorrei poter dire che ho accettato me stessa incondizionatamente», si confessa Zelwa con tutta la sincerità dei personaggi più veri. «Ma rimane invece uno sforzo quotidiano. Sono mezza umana, dopo tutto».

Un ultimo merito da riconoscere a Randa Jarrar e alla sua raccolta riguarda il potere trasformativo che riconosce alla parola, alla narrazione. Per l’identità araba, per l’identità araba in diaspora, per l’identità di genere e per tutte le identità che ci riconosciamo e sentiamo nostre – qualsiasi esse siano – la parola è denuncia, cambiamento; è memoria, verità. Non c’è antidoto alla speranza, al desiderio di riconoscimento; nessuna forza oppressiva in grado di cancellare una storia che ne sia testimonianza, sino a quando qualcuno, o qualcuna, la racconterà.
«Un pomeriggio mio figlio torna a casa e mi dice di aver cominciato a scrivere», dice uno dei protagonisti della raccolta. «Andiamo a fare una passeggiata e io gli racconto un po’ di storie sul mio mondo, la mia infanzia nella scuola da due classi, il periodo in cui sono rimasto bloccato in Giordania, il modo in cui mi sono innamorato di sua madre e del suo paese, quanto mi sono sentito inutile durante la Guerra del Golfo, quanto mi senta sempre solo, quanto mi manchi mia madre, quanto vorrei prendermi cura della mia famiglia […]. Allora entrambi alziamo gli occhi al cielo, e io vedo una sola nuvola vaporosa fluttuare in un cielo altrimenti limpido. Allora gli faccio:
“Ho un’idea per te. Dovresti scrivere la storia di un uomo che guarda il cielo e riconosce la stessa nuvola che aveva visto dieci anni prima, incorniciata da un anello di fumo”.
“E poi?” mi dice, superandomi.
“E poi vai avanti tu”».


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