Lettera aperta

Matteo Aloe, fondatore di «Berberè»: «Le mie 3 proposte per far tornare i giovani (a credere) e lavorare nella ristorazione»

di Matteo Aloe

Lettera aperta del fondatore delle pizzerie «Berberè», realtà presente in Italia e a Londra con 16 locali e 250 dipendenti: ecco le sue tre proposte al Governo

Matteo Aloe, fondatore di «Berberè»: «Le mie 3 proposte per far tornare i giovani (a credere) e  lavorare nella ristorazione»

So che affrontare il tema della carenza di personale nella ristorazione in poche righe rischia di banalizzarlo. Credo che però possa essere utile il punto di vista di chi, come me, da 14 anni lavora in questo settore, di cui 12 come imprenditore, e fra poco compirà 36 anni, un’età non troppo lontana da quella dei tanti ragazzi e ragazze che lavorano nella ristorazione. Avevo 24 anni nel 2010 quando, insieme a mio fratello Salvatore, abbiamo aperto la prima pizzeria «Berberè». Oggi siamo una piccola realtà presente in Italia e a Londra con 16 locali e 250 dipendenti. Duecentocinquanta persone che, senza retorica, sono fondamentali per il successo della nostra attività: da chi redige il bilancio a chi ogni giorno rinfresca il lievito madre, da chi risponde al telefono per accettare le prenotazioni a chi programma gli acquisti, da chi si interfaccia con l’ufficio paghe a chi fa rispettare le norme haccp. D’altronde lo dicevano anche gli accademici McCarthy e Kotler che la P di people è una delle 7P del marketing mix necessario per il successo di un’azienda di servizi. Noi ci abbiamo sempre creduto e investito.

Eppure oggi molte imprese di questo settore, piccole o grandi che siano, si trovano in difficoltà perché non è facile trovare personale. Non mi addentro nell’analisi di un fenomeno come questo che richiederebbe una complessa interpretazione sociologica. Mi limito, da imprenditore, a lanciare questa riflessione a due destinatari: il Governo e i ragazzi e le ragazze, ai quali vorrei, in questa gara mediatica di bruttezza e cattiva narrazione, scrivere due parole sulla bellezza perché lavorare in un ristorante è bello!

Al Governo chiedo di fare una veloce e seria riflessione sul mondo del lavoro in un comparto che — la pandemia lo ha reso ancora più evidente — è fondamentale per il nostro Paese: turismo e pubblici esercizi rappresentano il 13 per cento del Pil diretto, circa 1,5 milioni di posti di lavoro. Senza considerare il legame di filiera tra ristoranti e agricoltura, allevamento, trasformazione e servizi. Come mai un comparto così rilevante dell’economia nazionale è lasciato troppo spesso all’autogestione e senza adeguate risorse finanziarie e strategiche? Secondo la Fipe mancano 150.000 addetti: è un problema per il Pil e, quindi, per il benessere della popolazione. Quando ci si occupa delle persone che accolgono e che lavorano quotidianamente nel settore?

Sono le 3 le proposte che voglio lanciare.

1. Si può prevedere, per rilanciare ristorazione e turismo, a un taglio del famoso cuneo fiscale con l’obiettivo di far arrivare più soldi in tasca ogni mese ai chi lavora nel comparto, così da renderlo più attrattivo? Meno tasse in busta paga, meno tasse alle imprese virtuose, pagamenti elettronici obbligatori e più controlli per combattere il lavoro nero e l’evasione fiscale.

2. È possibile pensare un modello di lavoro più flessibile che agevoli le assunzioni? Flessibilità che non significa precarietà, perché i diritti conquistati vanno tutelati, ma possibilità di avere un giusto bilanciamento fra vita e lavoro, tenendo conto delle diversità: c’è chi lavora nel week end perché durante la settimana studia, chi lavora solo la sera perché al mattino ha altri impegni o chi, invece, preferisce il week end libero per stare in famiglia. Insomma flessibilità come chiave per andare incontro alle diverse esigenze, permettendo all’impresa di costruire un puzzle che funzioni per le singole persone e per se stessa. L’attuale Ccnl è obsoleto e non va incontro a nessuna delle parti. Ci si lamenta molto della gig economy, ma sono proprio quelle aziende che, con tutte le dovute riflessioni dal punto di vista dei diritti, attraggono i giovani. La on-demand economy ha cambiato il modo in cui si lavora, e paradossalmente per molte persone è preferibile la flessibilità di una app rispetto alla rigidità di un contratto di lavoro. La sfida è lavorare sui diritti comprendendo al contempo il messaggio che nuovi lavoratori e lavoratrici stanno mandando: un lavoro non è tutto, non è per sempre e molto probabilmente non è full time.

3. La pandemia ha dimostrato che si possono mettere in campo varie misure, come è stato dal cash back o il bonus bicicletta, in tempi veloci. Perché non installare la possibilità di mance che vanno direttamente ai e alle dipendenti con i pos, non tassandole come reddito per l’impresa e per chi lavora? Un modello simile a quello che esiste già in altri Paesi europei o il sistema Tronc presente nel Regno Unito. Una misura non rivoluzionaria che però potrebbe ridare ossigeno e soprattutto appeal a un settore culturalmente strategico che altrimenti rischia di rimanere vittima di una spirale negativa.

Alle e ai giovani, invece, chiedo di non farsi condizionare dall’attuale mood negativo: lavorare in sala o in cucina è divertente, l’ambiente di lavoro consente di metterci del proprio, di interagire con tutti gli elementi della squadra e con la clientela, la gratificazione arriva ogni giorno con la felicità delle persone ospiti. È come far parte di una band che deve suonare live ogni sera. Ci si può innamorare di questo lavoro e aumentare le proprie competenze e responsabilità. In più oggi le aziende si stanno organizzando, le tecnologie permettono di avere dati da analizzare, quindi entrare in questo mondo vuol dire avere l’opportunità di diventare, ad esempio, restaurant manager, area manager o responsabile di produzione.

Essere a capo della gestione di un locale vuol dire saper gestire circa un milione di euro di fatturato, una squadra di 10-15 persone e coprire trasversalmente più attività. Essere a capo di una cucina può significare apprendere nuove tecniche costantemente, essere capaci di gestire la supply chain, la formazione tecnica, il prodotto. Ogni giorno! Per questo vorrei dirvi, ragazze e ragazzi, non abbandonate le speranze che in questo campo si possa lavorare con passione, piacevolezza e avere anche soddisfazioni personali, economiche e non. Stiamo parlando di un lavoro che ci permette di stare a contatto con cibo, vini, artigiani e artigiane e clientela; di conoscere nuove persone ogni giorno, persone da tutto il mondo. Un mestiere che apre le porte di tante possibilità. Un lavoro che ci fa stare a contatto con la cultura. È una cosa rara e non banale nel mondo del lavoro dei prossimi decenni. Coltivare, trasformare, conservare, preparare e offrire cibo affinché faccia bene e faccia stare bene è una missione. Ecco perché lavorare in un ristorante è il lavoro più bello del mondo, secondo me.