di Enrica Fei
Nel lontano 1992 giocavo a nascondino col mio amico immaginario Giuseppe (anche se invisibile, vinceva sempre lui). Dal mio nascondiglio dietro la porta, origliavo la conversazione segreta dei miei genitori. Giuseppe aveva vinto e urlava come un pazzo: “Tana libera tutti!!!”. Portandomi il mignolino alla bocca, lo rimproverai con lo sguardo severamente. “Pare che ci sia IT stasera sulla RAI”, diceva mia madre a mio padre. “Starò attento a tenere Enrica lontana dalla televisione, l’ho visto al cinema e mi ha fatto paura davvero”, rispondeva lui. Il “mi ha fatto paura davvero” me lo sono inventato: non ricordo cosa disse, ma quali che siano state le sue parole, furono potenti abbastanza da farmi sgattaiolare di nascosto per godere del film proibito.
Me lo gustai ad un centimetro dallo schermo, gambe incrociate sul pavimento, occhi fissi e terrorizzati sul clown malvagio. Pietrificata dalla paura, stregata dal mistero del Male, lo vidi fare capolino da un tombino, scavare tombe in un parco giochi, sputare sangue da un lavandino, ma non mi tappai gli occhi mai, nemmeno per un istante. Per più di un mese dopo, dormii nel letto dei miei genitori. All’esame di terza media, nel tema di italiano, “Pagine della mia Vita”, scrissi della nascita di mia sorella, dell’omeopata che mi avvelenò con la belladonna, e di Lui: il Clown.
Mio padre si prese cura del mio trauma facendomi vedere La Famiglia Addams (per ridere della paura), e la scena nella doccia di Psycho, senza la colonna sonora (per mostrarmi come il cinema fosse finzione: una macchina magica e misteriosa che prende la rincorsa, spicca il volo e arriva in cielo, grazie a numerose ruote e tantissime ali: una di queste è la colonna sonora). Devo a lui la mia passione per il grande cinema d’autore – a chi debba la mia passione per il resto, non lo so.
Ero troppo piccola nel ’92 per apprezzare il genio di Stephen King e il gore cattivo ed elegante di Tommy Wallace (guai a chi dice che il romanzo di Stephen King è una stronzata). Ciò che mi terrorizzò e affascinò al tempo era dovuto alla mia attrazione per il “resto”, che già si manifestava nella mia infanzia, non alla mia passione per il grande cinema. Il resto è lo stesso motivo per il quale, da grande, non ho visto solo Saw; ho visto anche Saw II, Saw III, Saw IV, Saw V, Saw VI, Saw VII, e Jigsaw (che è esattamente uguale agli altri, ha solo tre lettere in più). Non è il resto a spiegare la mia passione per Alfred Hitchcock, Dario Argento, David Lynch, David Fincher, David Cronenberg, Wes Craven, o John Carpenter, o a spiegare la mia ossessione delle medie per gli uccelli rapaci (non ci sono avvoltoi negli Uccelli di Hitchcock, ma i corvi del film non erano abbastanza torvi per le mie fantasie: ero alle medie, un po’ di clemenza). E’ sicuramente il resto, però, che spiega perché abbia visto Gatti, Pesci, e penso ci fosse anche Cani (saghe horror animalesche, in tutti i sensi, sulla scia del capolavoro hitchcockiano).
Il “resto” è difficile da comprendere, se non lo provi. La misteriosa alchimia del genere rende difficile individuarlo, enuclearlo. Come in un grande calderone in cui bolle una pozione magica, la strega dell’horror aggiunge ingredienti speziati e misteriosi, che conosce solo lei: il resto è uno di questi.
Quando l’horror è d’autore, il mistero della sua magia balla la danza macabra di Eros e Thanatos. È la pulsione di piacere e di morte di freudiana memoria: il desiderio carnale di distruggere la vita per sentirsi vivi. Quando l’horror è di serie B (ma non trash, ovviamente) la danza macabra diventa un gioco. Si prende meno sul serio, ride di se stessa e dello spettatore, ma conserva il suo ritmo erotico, i suoi passi di morte. Le dosi della pozione magica possono cambiare. Il resto è l’ingrediente del gioco, predominante. È l’elemento ludico, superficiale e infantile, eppure gravido di orrore e desiderio.
È questo il grande genio del libro di Stephen King e, in misura del minore, del film di Wallace, che riprende questo elemento e non lo violenta: dare un volto alla paura, e al suo gioco.
Il resto è il clown che ci sorride dall’altro lato della strada. Gioca con i palloncini, diverte i bambini. Ci chiama a lui con la mano. Non ci fa davvero paura: è solo un Clown, stiamo giocando. Il Clown ride: di noi, delle nostre paure. È il fratellino scomparso che la vita ci ha portato via. È il padre violento che ci ha rubato l’innocenza. È il senso di colpa per averlo fermato. È la forza che muove la mano col rasoio per fendere le vene. Ride, il Clown. Perché è innocente. Non è lui a risvegliare i Morti. Non è lui a portarci agli inferi. L’inferno, lui lo sa: l’inferno è dentro di noi.
P.S. Il resto è il Clown che rivede se stesso 26 anni dopo. I grandi capolavori continuano a rivelare segreti, generazioni dopo generazioni: chi lo avrebbe mai detto che il vero orrore di IT sarebbe stato Andres Muschietti e il suo remake.
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