di Enrica Fei
Mio ex marito ha avuto una bambina quando eravamo sposati, e la madre non ero io. L’ho scoperto due anni e mezzo dopo l’ultima volta che li ho visti, tutti insieme. Seduti al tavolo, quel pomeriggio, eravamo in cinque. Era giorno ma era buio, e la luce che ci illuminava era quella asfittica e finta delle lampadine e degli spazi chiusi.
C’era lui, mio ex marito, che non era ancora un ex ma mio marito. C’era una bambina, sua figlia. C’era una madre, c’era un padre; c’era la madre che non era solo una madre, e il padre che era solo un uomo. C’era lui, c’era lei. C’erano loro. E c’ero io.
Avevo preparato un tiramisù alle fragole e limoncello, e la porzione grande per la bambina aveva solo il latte. Maya. Gli occhi piccoli color ambra sul volto tondo e la pelle bianca, i riccioli morbidi castano chiaro. L’ho guardata sorridendo, mentre prendeva le fragoline con le mani e se le metteva in bocca.
Ha alzato il musino e ha ricambiato il sorriso alzando le sopracciglia, come si fa per la meraviglia, o la felicità. Ha riso di gusto. I dentini piccolissimi e radi che si hanno a 2 anni, la bocca sporca di tiramisù. Mi sono portata il dito alla guancia, l’ho ruotato veloce e ho detto – yammy! – per farla ridere. Lei ha accennato un sorriso e mi ha guardato, interrogativa. Ha avvicinato un dito minuto alla guancia, l’ha toccata appena.
***
“Every magic tricks consists of three parts, or acts”. La mano forte e nodosa dell’anziano Maestro entra in una delle gabbie della grande voliera a parete.
La sala dei giochi di prestigio è illuminata dalla luce del sole che si riflette sugli specchi. L’uno accanto all’altro, ricoprono un’intera ala della sala. Si riempiono della luce del sole e irradiano la bottega di arnesi e marchingegni. Illuminano il legno dei cassettoni, il cristallo delle ampolle, l’oro dei candelabri e il vetro delle giare. E il Maestro. Illuminano la sua stazza corpulenta e forte, gli occhi azzurri e vivaci sul volto anziano ma ancora allegro.
“The first part is called “the pledge”. The magician shows you something ordinary”. Il Maestro prende un uccellino giallo dalla gabbia e lo mostra alla piccola spettatrice di fronte a lui. È una bambina di quattro, forse cinque anni, che lo studia attenta, timida e curiosa. Sorride e si muove appena, inclinando leggermente il capo. È seduta sopra un enorme comò di legno che la porta in alto, all’altezza del Maestro. Gli occhi tondi e blu, i capelli biondi raccolti in una treccia, il vestito rosa col colletto di pizzo bianco e le trine sulla gonna, lunga e plissettata – alla sua destra si staglia la grande vetrata e dietro di lei la parete di specchi: sembra una principessa bambina incoronata dal vetro e illuminata dal sole.
“The second part is called “the turn”. The magician takes the ordinary something, and makes it into something extraordinary”. Il Maestro sbatte un panno nero e l’uccellino scompare. La bambina si fa seria. Non sono più amici: il Maestro, nascondendo l’uccellino, l’ha ingannata. Lui la guarda incupirsi: il velo di tristezza che le appanna il sorriso, la diffidenza che l’allontana. Gli occhi del Maestro bruciano. La bambina, lui lo sa, ha imparato troppo presto che la magia non esiste, ma la verità sì: ti mentono quando dicono che non c’è. Ma gli uomini e le donne, sempre, scelgono di mentire.
“But you wouldn’t clap yet. Because making something disappear isn’t enough”. Anche lui, il Maestro lo sa, è colpevole. Ha formato Angier e Borden, i due più grandi maghi di Londra, ha insegnato loro il sacrificio; ha lasciato che l’egoismo, la competizione, ne facessero i migliori prestigiatori di fine ‘800, a qualsiasi costo. E la bambina è rimasta sola, con un papà che a volte l’amava, a volte no – perché a volte era lui, a volte un altro. E in una vita di inganni, tradimenti, menzogne, soddisfazioni egoiste e rivincite personali, ha imparato troppo presto che la vita, al contrario della magia, è fatta di verità – di amore che c’è, o non c’è. Di legami che si curano, o si rompono. Di promesse che si mantengono, o si tradiscono. E che la verità è l’unica cosa che, se vogliamo, è nostra davvero. Neanche la vita ci appartiene: come quella di sua mamma, prima o poi ha una fine, che non scegliamo.
“You have to bring it back”.
L’uccellino giallo ricompare e Borden, il papà della bambina, entra nella stanza. Lei si apre in un sorriso di gioia, batte le mani, corre verso il padre. La bambina tra le braccia, Borden ringrazia il Maestro con lo sguardo, ed esce.
Il Maestro rimane solo. A causa sua, Angier, il suo allievo prediletto, ha perso. Si sistema la giacca sulle spalle, si guarda intorno: la stanza del prestigio, i suoi arnesi, i suoi strumenti. Deglutisce, gli occhi lucidi. Per una volta, nella vita, ha fatto la cosa giusta.
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