PARTITUREEnrica Fei

Il giorno 0

PARTITUREEnrica Fei
Il giorno 0

Il giorno 0 di questa storia è il giorno in cui io vivo, e tu muori. È il giorno in cui impacchetto le nostre cose e torno a casa, mi muovo a fatica. Tu invece no, sei morta. Ti ho già lasciata indietro.

Ho preso il tuo spazzolino, il tuo pigiama; un tuo libro che non ho mai letto e un tuo quaderno che ho buttato via. Mio padre mi ha aiutata. Abbiamo cercato tra le tue cose, le abbiamo selezionate con cura; abbiamo preso quello che ci sarebbe servito e abbiamo buttato il resto. Tua madre, invece, no. Sono anni che non la vedo, se n’è andata quando sei morta. La tua storia è finita senza il suo saluto. La mia è iniziata senza di lei.

Il tuo funerale è durato a lungo: giorni, settimane, finiva e ricominciava. Le persone cambiavano, alcune tornavano; altre venivano una sola volta e poi mai più. Gli amici sono venuti a casa per mesi: arrivavano spaiati o in coppia, in gruppo o da soli. Nessuno di loro sapeva bene com’eri morta. Sedevamo intorno a un tavolo, io ero molto debole. Pranzavamo, cenavamo, fumavamo sempre molto: nella luce bassa e soffusa, puntini di braci rosse si accedevano e spegnevano. Il fumo usciva da bocche nere e creava volti che non avevo mai visto. A volte stavamo in silenzio, altre volte parlavamo a lungo. Quasi mai di te. È stato facile durante il tuo funerale: nessuno sospettava né faceva domande. Io ero bisognosa, debole e viva, i nostri amici erano lì per me e a nessuno interessava davvero la tua morte. Venivano a turno, ogni notte, a prendersi cura di me che ti avevo persa. Non sopportavo che mi guardassero dormire per una ragione che non ero io ma tu, che eri morta. Ho cominciato a mentire dicendo ad alcuni che sarebbero venuti altri e finalmente, dopo un po’, nessuno è venuto più.

Quando mi annoiavo, ballavo da sola rivivendo la tua fine. Quella notte era sulla bocca di tutti, e io inscenavo ogni particolare, immaginavo ogni tuo momento di dolore, ogni attimo di strazio e di paura. Tutti ne parlavano, ma solo io li conoscevo. Sognavo un funerale solenne, requiem che si diffondono in grandi chiese, la luce calda e colorata delle cattedrali. Sorridevo e ti compativo: in verità nessuno, al tuo lungo funerale, aveva neanche mai pensato a te. Mi vedevo in abito lungo e scuro, lo scollo profondo, i capelli raccolti e gli occhi illuminati da un trucco nero e argentato. Immaginavo gli uomini che avevi amato che piangevano, mi guardavano, mi stringevano. Alcuni di loro li volevo anch’io: nelle mie fantasie le loro mani scendevano lungo la mia schiena, carezzavano il petto, raggiungevano il ventre; il desiderio scendeva verso il basso e io gli cedevo il bacino, lasciando che mi avvolgessero.

Un giorno ho deciso di aprire la tua valigia. Era quella del tuo ultimo viaggio nel deserto, e dalla notte in cui eri morta era rimasta lì, in un angolo. Indolente, ho frugato tra le tue cianfrusaglie; ne avevi sempre tante con te. Ho sciolto le zollette di zucchero a forma di serpente: gli ho spezzato la coda, la testa, le ho messe nell’acqua calda e poi l’ho buttata, senza berla. Ho staccato la capocchia colorata e rotonda degli aghi, ne avevi tanti: le donne che avevi conosciuto li portavano sulla testa, per sistemare i veli. Ho preso la carta da lettere di cotone, ci ho passato sopra l’accendino; che sciocca che eri: bruciava anche lei, come la carta.

Poi ho trovato il tuo quaderno di scotch. Non ricordavo fosse lì. Era importante, quello. Ho passato la mano sopra le fascette adesive della copertina e sono tornata al giorno in cui lo avevi fatto rilegare. Lo avevi dato a un uomo sulla strada. Con uno strano strumento, il vecchio lo aveva ricoperto di strisce trasparenti, verticali e orizzontali, come un mosaico. Te l’aveva reso inclinando il capo, portandosi la mano sinistra al cuore. In una lingua lontana, aveva ringraziato Dio. Tu avevi capito e, in quella sua stessa lingua, avevi risposto.

L’ho sfogliato dall’ultima pagina alla prima, come ricordavo che facevi per leggerlo. Ci avevi preso appunti per mesi, lo avevi conservato gelosamente. Ho provato una volta, poi un’altra. Da destra a sinistra, non capivo; di nuovo, da destra a sinistra: niente. Ho provato da sinistra a destra, magari era un’eccezione: nulla. Avevi studiato quella lingua per anni, la “lingua di Dio”, come credeva chi la parlava e te l’aveva insegnata. Ho chiuso gli occhi, li ho riaperti: le lettere ricurve erano volti maligni che mi guardavano in silenzio e ridevano di me. Ho riprovato: da destra a sinistra, di nuovo, da destra a sinistra: niente. Sono rimaste mute.

Ho strappato ogni pagina quattro, sei, otto volte. Mi sono gettata sulla tua valigia: ho fatto a pezzi i tuoi libri, ho bruciato le tue lettere, ho distrutto tutto quello che dal deserto avevi portato con te. Era successo quello che avevo temuto: fino all’ultimo eri riuscita a scamparla. Tu eri morta, io ero viva, ma andandotene ti eri portata via tutto quello che contava davvero. Avevo pensato di odiarti quanto ti meritavi. Non era possibile. Tutto l’odio di cui ero capace non sarebbe mai stato abbastanza per la rabbia feroce che provavo per te.

Come tutte le storie, questa ha un inizio, una fine e un tempo preciso tra l’uno e l’altra. Per alcune storie è importante l’inizio, per altre la fine; in questa, nel tempo di mezzo, sono successe tante cose ma molte di queste, arrivate alla fine, si sono perse nell’inizio.

Poco dopo aver aperto la tua valigia, sono partita. La tua morte mi aveva reso ricca e ho lasciato il luogo dove ero nata e tu eri morta. Gli eventi si sono succeduti come puntini che si illuminavano e si spegnevano. Ho vissuto in una grande città. Ho conosciuto tante persone. Ho fatto sesso con più uomini di quanti tu ne abbia mai frequentati. Ho viaggiato nel deserto, come te. Ho visto i grattacieli di cristallo tra le dune, un ponte lungo decine di chilometri fatto di centinaia di dighe, una attaccata all’altra, che entravano nei fondali del Golfo Persico e univano due distese di sabbia grandi e ricchissime. Ci ho camminato sopra, e ho pensato davvero che avrei conosciuto tutti i luoghi che tu, che eri morta, non avresti mai visto.

Mi sono guardata ogni giorno allo specchio e ti ho rivista sorridere nelle tue simmetrie perfette. Gli occhi grandi, gli zigomi allineati, il naso all’insù. Ho riguardato le foto di un tempo e ti ho odiata: non sarei mai più stata bella davvero. Passandomi un dito sul viso, scrivevo l’alfabeto della lingua di Dio. Sognavo di sfregiarti con le sue linee storte e sgraziate.

Dopo dieci anni sono tornata nel luogo dove eri morta. Era passato tanto tempo. Ero stanca. Ho attraversato l’ospedale e sono arrivata al cortile interno dove gli amici ci portavano a camminare. Mi sono seduta su una panchina. L’ingresso del reparto era di fronte a me.

Ti ho rivista appoggiarti al cancello del cortile per non cadere; sorridere e annuire, quando non riuscivi a seguire le conversazioni di chi ci veniva a trovare.

Ho ripetuto dentro di me una qualunque delle parole che avevo ricominciato a studiare. Una, due, tre: le ho messe insieme in una frase. La lingua che avevo dimenticato stava tornando. Mi sono avvicinata, ti ho parlato.

Ti ricordi la fatica che facevamo a scendere le scale del reparto, ad ascoltare le conversazioni di chi ci veniva a trovare; nel cortile gli amici si allontanavano per fumare una sigaretta e noi, pure da lontano, faticavamo a respirare. Chissà se eri ancora viva, allora. Parlavi dei tuoi viaggi, della lingua che avevi studiato; dicevi che saresti ripartita presto e a chi ti guardava con compassione non facevi caso.

Forse non sei morta in quella notte di violenza. Forse non ti ho uccisa nemmeno in ospedale. Forse ho deciso che eravamo due persone diverse quando sono tornata a casa. Quando mio padre mi ha aiutata, mia madre non è più tornata; gli amici sono venuti a trovarmi per mesi e si sono presi cura di me. Quando ho realizzato che tutti avrebbero dimenticato, che la vita sarebbe andata avanti.

Il tempo è una cosa strana; non funziona come credevo. Ho sempre pensato che le storie iniziassero in un giorno e finissero in un altro, e che il giorno in cui io lasciavo l’ospedale era il giorno in cui tu morivi, e io nascevo. Ora ho capito che mi sbagliavo. Non ci sono inizi e non ci sono fini: ci sono solo momenti che definiscono la nostra storia. Sbatto gli occhi e ti vedo, dalla parte del prima: più giovane, più allegra, più bella. A parte questo, non siamo poi così diverse.

Ti saluto e alzo le braccia. Per farlo disegno uno 0, intorno a me, come il giorno dell’inizio di questa storia. Sorrido: che stupida. Non ho disegnato uno 0, ma un cerchio. È un cerchio ed è pieno. E al centro ci sono io.