La luce della foto forse è sovraesposta. E’ quasi bianca, impallidisce i volti, è luminosa e al tempo stesso fredda. Dietro gli uomini in tenuta militare immagino una terra brulla, arida. Mi sembra di vedere le dune, la sabbia, di intravedere il deserto iraniano che ho conosciuto qualche anno fa. Eppure, nella foto, non c’è niente di tutto questo: lo spazio, sullo sfondo, è una striscia sottile. I soldati sono in un container? In un centro di addestramento? In Iran? Iraq? Afghanistan? La didascalia della foto non aiuta. “Young Iranian volunteers showing signs of recent combat experience”. Il sito persiano dove l’ho trovata non dice nulla di più.
Gli uomini sono tutti giovani, giovanissimi. Alcuni, penso, non sono maggiorenni. Il loro sguardo è stanco, stravolto. L’obiettivo della macchina fotografica è presumibilmente alla loro sinistra, ma molti guardano altrove: in basso, in alto, a destra, di fronte a sé. Sono persi.
Al centro della foto, uno spicca sugli altri: è più alto, la barba tagliata e in ordine, lo sguardo concentrato, stanco ma sereno. Fissa l’obiettivo con ubbidienza e, al tempo stesso, autorevolezza. Tiene la mano sulla spalla di un ragazzino che, gli occhi spalancati, pare terrorizzato. Lui, al contrario, sembra sorridere. È diverso degli altri: è consapevole. Sembra già adulto. Sa cosa accadrà: non solo in quel momento, ma più avanti, e avanti ancora. Sempre.
Le sopracciglia folte incorniciano due occhi grandi, ovali, quasi a mandorla. L’occhio sinistro si abbassa, disegna un arco che scende, come una lacrima. L’altro, invece, guarda dritto di fronte a sé, placido e sicuro. In questa foto in cui accenna un sorriso, sembrano buoni.
Questi occhi, li ho già visti.
Sono quelli di Qassem Soleimani.
“You should know that I control the policy for Iran with respect to Iraq, Lebanon, Gaza, and Afghanistan”. Immagino il Generale Qassem Soleimani pronunciare queste parole lentamente, la voce greve, severa, ferma. La voce di chi constata un dato di fatto di rilevanza immensurabile ma, data la sua posizione, non ha il bisogno di spiegarsi, di esplicitarne le implicazioni. Se fossero state pronunciate oggi, la lista di paesi di fondamentale importanza per gli equilibri mediorientali – o globali, potremmo dire, vista la confluenza in questa area del mondo di altissimi interessi strategici, economici e geopolitici – si sarebbe estesa alla Siria, dove grazie alle forze iraniane il presidente Bashar al-Asad è ancora al potere, e allo Yemen, dove l’Iran aiuta, finanzia e addestra le forze ribelli contro il regime appoggiato da Arabia Saudita e Stati Uniti. Queste parole furono rivolte dal generale iraniano al Comandante David Petraeus nell’aprile 2008, in Iraq. Quello stesso Iraq dove, il 3 gennaio 2020, Qassem Soleimani atterrava, poco dopo la mezzanotte, proveniente da Damasco, in Siria, in arrivo da un viaggio breve, iniziato il giovedì precedente, che da Damasco lo aveva portato a Beirut, in Libano, per incontrare Hassan Nasrallah, Segretario Generale del partito e gruppo militare sciita Hezbollah. Come riferisce uno dei leader di Hezbollah a Middle East Eye (https://www.middleeasteye.net/news/tracked-targeted-killed-qassem-soleimanis-final-hours), i due avrebbero discusso a lungo sugli ultimi sviluppi in Iraq dove, la settimana prima, i caccia americani avevano colpito alcune basi di Hezbollah, poche ore dopo il lancio dei missili iraniani che aveva provocato la morte di un uomo d’affari americano.
All’Aeroporto Internazionale di Baghdad, lo attende il Generale iracheno Abu Mahdi al-Muhandis – amico, alleato, sodale di lunga data del Generale Iraniano e vice-capo delle Forze di Mobilitazione Popolare (Hashd al-Shaabi) – la coalizione di milizie para-militari, prevalentemente sciite, costituitesi per sconfiggere lo Stato Islamico e ancora attive sul territorio iracheno. I due, al-Muhandis e Suleimani, erano tra gli uomini più ricercati dalle forze americane dai tempi di Osama bin-Laden. Avevano guidato la vittoria contro lo Stato Islamico, ma rimanevano i rivali più forti dell’influenza americana nella regione. “Terroristi”, secondo l’amministrazione del Presidente Donald Trump. Prendevano misure di sicurezza estreme; procedure sempre nuove, segrete, grazie alle quali si spostavano da una parte all’altra del Medio Oriente come fantasmi. È pressoché certo che siano stati traditi. Qualcuno, all’interno della macchina iraniana, voleva un cambio di rotta, nuove leve. Il futuro ci dirà chi, e in quale direzione.
I due salgono su un’auto, seguiti da un altro veicolo. Pochi minuti dopo, tre droni si abbattono sulla vettura. La pietra corniola, nella tradizione sciita, protegge dai nemici e dalle sventure. Di colore rosso intenso, è al dito di numerosi fedeli, incastonata in anelli possenti.
A differenza degli altri corpi, carbonizzati, quello di Soleimani è stato riconosciuto quasi subito. La corniola, indossata per una vita, era ancora lì.
È difficile immaginare la statura di Soleimani, se non si conosce a fondo la geopolitica del Medio Oriente. È difficile comprenderne il ruolo, il suo status militare e al contempo politico, il suo potere decisionale, imparagonabile a quello di qualsiasi altro Generale di un qualunque stato, occidentale o mediorientale. Nelle questioni internazionali, era superiore al Presidente della Repubblica, Hassan Rouhani, al ministro degli Affari Esteri, Javad Zarif.
Soleimani era secondo solo al Grand Ayatollah, Ali Khamenei, la Guida Suprema, la più alta carica governativa dai tempi della costituzione della Repubblica Islamica che, a seguito della Rivoluzione del 1979, spodestò l’ultimo Shah di Persia, Mohammed Reza Pahlavi. E forse superiore persino a lui, per quanto non ufficialmente. È impossibile sapere come avvenissero i loro incontri, in che modo parlassero l’uno all’altro, chi dei due decidesse cosa. È certo, però, che l’uomo di campo era Soleimani ed era quindi lui che descriveva, rendeva conto, consigliava: che decideva, in altre parole.
Ancora più inafferrabile, tuttavia, è il Soleimani uomo. Leggo che nel 2008 il Generale David Petraeus, al tempo Comandante della Coalizione Multinazionale in Iraq, lo definì “a truly evil figure”. Di fronte alla grossolana semplicità delle parole di Petraeus, uomo di guerra anche lui, tra i responsabili dell’invasione americana dell’Iraq del 2003 e delle disastrose conseguenze che il paese paga ancora, sorrido. Perché la complessità di Soleimani, in una qualche misura, è quella spiazzante della Repubblica Islamica dell’Iran.
L’Iran e La Rivoluzione Islamica
“La storia dell’Iran è piena di violenza e di drammi: invasioni, conquistatori, battaglie e rivoluzioni. Poiché l’Iran ha una storia più lunga della maggior parte degli altri Paesi, ed è più grande di molti di essi, questa drammaticità è maggiore. Ma la storia dell’Iran è molto di più: ci sono religioni e influssi, movimenti intellettuali e idee che hanno cambiato le cose all’interno dell’Iran, ma anche al di fuori di esso, e nel mondo intero”. Così inizia la “Breve Storia dell’Iran”, di Michael Axworthy.
Quella iraniana è una delle più antiche civiltà al mondo, tra le più profonde e complesse.
L’Iran e la Persia sono lo stesso paese. Nell’immaginario collettivo occidentale, la Persia ha un sapore romantico e mitico: è quella dell’Impero, di Ciro il Grande, di Dario, di Persepoli, della poesia e delle musiche orientali. L’Iran, al contrario, suscita immagini diverse: fondamentalisti religiosi dallo sguardo minaccioso, donne incappucciate e sottomesse, folle esaltate che bruciano bandiere urlando “Morte ad Israele”, “Morte all’America”. Eppure, la poesia “persiana”, per come la immaginiamo, è quella che molti iraniani comuni sono in grado di recitare a memoria, e le cui citazioni, nel linguaggio quotidiano, sono intercalari frequenti. Nei tempi antichi, quando i Greci, e poi i Romani, e gli Europei, cominciarono a chiamare “Persia” l’impero di Dario (il popolo era di etnia “persiana”, appunto, non araba), i popoli di quelle terre si definivano “Iraniani”, e chiamavano la loro terra “Iran”. Il termine è di origine antichissima e probabilmente significa “nobile”. Nel 1935 Reza Shah, per distinguere il suo governo dalla corrotta dinastia Qajar che lo aveva preceduto, ordinò alle ambasciate di pretendere che i governi stranieri chiamassero la Persia, “Iran”.
Quando ero in Iran, moltissimi, tra persone più o meno colte, mi dicevano con orgoglio: “siamo l’unico Stato del Golfo Persico a possedere confini millenari”. Suonava altisonante, ma era vero. Una ricercatrice universitaria, una sera, si spinse un po’ più in là. “Dopo la Cina, siamo l’ex impero dai confini attuali più corrispondenti a quelli della nostra massima espansione”. L’affermazione mi sembrò inesatta; mi ripromisi di fare mente locale e verificare le sue parole. Mi sa che aveva ragione.
La percezione smisurata di sé, il senso di superiorità rispetto ai paesi arabi confinanti, la proiezione imperiale di se stessi sul mondo, costituiscono elementi affascinanti, quando si scopre l’universo iraniano. È ancora così, nonostante la Repubblica Islamica sia tra gli Stati più isolati della comunità internazionale. Anzi, a causa di quest’ultimo elemento, si accompagna ad un sofferto senso di ingiustizia, di mancato riconoscimento. È un dato intrigante, perché si muove su più livelli: quello della geopolitica – l’Iran come attore internazionale, che non accetta che gli venga negato il nucleare e che non si riconosca il suo status di superpotenza regionale – e quello degli iraniani comuni, che tendono a precisare che la loro storia è la più antica del Golfo Persico, che gli iraniani sono i più istruiti del Medio Oriente, che più del 60% degli studenti universitari sono donne.
Ancora più affascinante, inoltre, è come il senso imperiale di sé si sia intrecciato con l’ideologia islamica della Rivoluzione del 1979 e con una delle sue idee fondanti. La Rivoluzione Islamica non era una rivoluzione iraniana: l’Iran era solo l’inizio. La Costituzione iraniana stipulata dal Grand Ayatollah Ruhollah Khomenei, a capo della Rivoluzione, da una parte riconosceva l’Iran come stato-nazione; dall’altro, col suo particolarissimo sistema di governo – ancora ad oggi l’unico nel mondo islamico – conferiva al leader religioso, lo Ayatollah, il ruolo di Guida Suprema: non solo degli Iraniani, ma di tutti i musulmani. Era una rivoluzione islamica, appunto: riguardava l’intera dar al-islam (in arabo: la terra, la casa dell’Islam). Era questo, nelle parole di Khomenei, il motore ideologico della politica estera iraniana: esportare la rivoluzione. E fu questo che causò il panico tra i regimi della regione – in Arabia Saudita, Kuwait, Bahrain, Iraq, Libano, l’intero Medio Oriente: che i confini del potentissimo Impero tornassero quelli di un tempo.
Le complessità dell’Iran, tuttavia, non si fermano qui. Gli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione Islamica non sono stati anni di folle interventismo iraniano. Capitalizzando sulla dissidenza ai regimi vigenti, è innegabile che l’Iran abbia contributo all’instabilità mediorientale, allenando e finanziando gruppi paramilitari in vari contesti geografici (come Hezbollah, in Libano). Tuttavia, per una serie di concause (basti solo nominare la tradizione storico-politica del Paese e la necessità di occuparsi di questioni interne), lo Stato iraniano non può essere ridotto ad attore politico bellicoso, fanatico, sostenitore di guerre islamiste. Appoggiare gruppi ribelli in paesi che non rientrano nella sua sfera di influenza, infatti, risponde ad un preciso calcolo strategico e razionale, che viene perseguito solo laddove le circostanze e il tessuto sociale, politico e militare lo permettano. In paesi come il Bahrain, a dispetto di quanto i regimi della regione abbiano sostenuto, l’Iran non ha mai inviato, ad esempio, truppe o sostegni militari concreti – lo ha fatto l’Arabia Saudita, semmai, per reprimere le proteste in occasione della Primavera Araba del 2011. Il Bahrain è una piccolissima isola in mezzo al Golfo Persico, tra Arabia Saudita e Iran, e la famiglia reale – gli Al Khalifa – è per tradizione strettamente vicina a quella degli Al Saʾud, i monarchi dell’Arabia Saudita. La popolazione del Bahrain è per maggioranza sciita e, secondo gli Al Khalifa, gli Al Saʾud, e molti altri dittatori della regione, complotta contro il regime, sostenuta dall’Iran. Eppure, chiunque conosca il Bahrain, sa benissimo che questo non è vero. Ma gli Al Khalifa stessi, con questa giustificazione, hanno sciolto il partito sciita Al Wefaq e incarcerato e perseguitato numerosi dissidenti sciiti. Per quanto i sermoni della Guida Suprema abbiano denunciato le ingiustizie inflitte contro il popolo del Bahrain, l’Iran non si è mai fatto coinvolgere nelle vicende della piccola isola, per ragioni molto semplici. Il Bahrain è un paese troppo piccolo (non conta nemmeno un milione e mezzo di abitanti, di cui circa 600.000 sono stranieri), le risorse dell’opposizione sono troppo limitate e l’influenza di Arabia Saudita, Stati Uniti e Inghilterra troppo massiccia: inserirsi nelle tensioni sociali del Bahrain sarebbe, per l’Iran, disastroso.
La Repubblica Islamica è un sistema di governo complesso, articolato, costituito da figure politiche solide, in grado di compiere scelte strategiche ponderate e razionali. È un regime brutale, violatore dei diritti umani e civili, nemico del suo stesso popolo, se necessario per restare al potere. Ma non è, come comunemente rappresentato, uno Stato di guerre selvagge e fondamentaliste, di tagliagole barbuti e donne ridotte in schiavitù sotto il chador (il velo tipico iraniano).
È solo considerando questo, che si può iniziare a comprendere la figura di Qassem Soleimani. Il Grande Generale era l’uomo adibito a perseguire gli interessi iraniani nel mondo, a difendere l’Iran e, quando possibile, potenziarne la presenza militare, politica e economica in terra straniera. Era un uomo di Stato: proteggeva e rafforzava l’Iran come Stato-Nazione. Era un uomo razionale: lo stratega che decideva che inviare truppe in Bahrain sarebbe stato inutile ma, al contrario, che c’erano i presupposti per inviarle in Yemen, Siria, Libano, Iraq. Difendeva l’Iran Impero, lo restituiva alla sua grandezza ingiustamente vilipesa, nella concezione della Repubblica Islamica, dalla comunità internazionale. Solo a partire da questi punti fermi, si può comprendere il rispetto di cui godeva in patria. Nonostante l’Iran (almeno quello urbano) sia una delle società più laiche del Medio Oriente, il numero dei dissidenti politici sia altissimo e moltissimi siano gli iraniani che vorrebbero vedere il Regime cadere, Soleimani non rappresentava solo la Repubblica Islamica, ma l’Iran tutto. Nel 2016, uno dei miei primi incontri a Teheran avvenne con una famiglia curda e dissidente che, nel 2009, aveva partecipato attivamente al Movimento Verde (il moto popolare brutalmente represso dal regime che chiedeva le dimissioni del Presidente Mahmoud Ahmadinejad). Continuavo a rivolgermi a loro come se l’Iran fosse il loro nemico. Mentre parlavo concitatamente, la donna mi interruppe: “Well, pay respect. I’m Iranian”.
La vita di Qassem Soleimani
Sono pochissime le fonti sulla vita di Qassem Soleimani. L’estrema segretezza in cui il Grande Generale è vissuto, unita all’occultamento e alla manipolazione del materiale da parte del regime, rendono estremamente difficile ricostruire, al di là della propaganda, i momenti salienti della sua carriera e la sua personalità. Attingendo agli archivi dell’IRGC Center for Research and Study of the War, il ricercatore iraniano Ali Alfoneh (https://www.aei.org/research-products/report/brigadier-general-qassem-suleimani-a-biography/) ha raccolto e tradotto in inglese preziosissima documentazione sulla vita del Grande Generale.
Secondo il Dipartimento di Stato americano, Qassem Soleimani era nato a Qom, l’11 marzo 1957. In realtà era nato sulle montagne, al confine con l’Afghanistan, nella regione del Kerman, mentre Qom è uno dei maggiori centri di potere dell’Islam sciita. Nelle sue hawzat (in arabo, plurale per hawza, la scuola islamica sciita) si formano i futuri leader religiosi, non solo dell’Iran, ma dell’intero mondo musulmano sciita. Ricordo le mie ricerche a Qom. Contrariamente all’immaginario tetro che avvolge l’Islam, era una cittadina quieta, brulla, noiosa, abitata solo da studiosi del Corano e fedeli in pellegrinaggio. Data la sua cruciale rilevanza a livello religioso, non mi stupisce che il Dipartimento di Stato americano l’abbia erroneamente considerata come luogo di nascita di Soleimani, le cui origini di montagna, al contrario, si sarebbero rivelate cruciali per la sua carriera. La conoscenza della società tribale, quale era quella del Kerman, a differenza di molte altre regioni dell’Iran, lo avrebbe infatti aiutato in seguito, nella regione occidentale dell’Azerbaijan, in Afghanistan e in Iraq.
Qassem stesso apparteneva alla tribù dei Soleimani che, nel diciottesimo secolo, era migrata dalla regione meridionale di Fars a quella del Kerman. Stando alle sue stesse parole, raccolte in alcune note autobiografiche, proveniva da una famiglia molto umile, ridotta in povertà dalla riforma terriera dello Shah del 1962. La riforma prevedeva la divisione dei possedimenti terrieri tra i contadini, che la terra la lavoravano. A causa di corruzione e mal governo, tuttavia, andò a svantaggio dei più poveri, arricchendo smisuratamente gli aristocratici locali.
Secondo Ahmed Soleimani, un parente stretto ucciso nella guerra Iran-Iraq (1980-1988), il giovanissimo Qassem, a soli 13 anni, lasciò il suo villaggio sulle montagne, per partire alla volta della città, Kerman City, e lavorare come muratore. Era il 1970. Aveva ricevuto un’istruzione di base, non più dei 5 anni di studi elementari obbligatori ma, nonostante questo, la sua determinazione e il suo senso del dovere ne avrebbero fatto un lavoratore d’eccellenza. Secondo alcune fonti, nel 1975 entra nella Kerman Water Organization come appaltatore. Secondo altre, invece, resta il muratore che era quando si era trasferito in città. Non si sa molto più del giovanissimo Qassem, se non che partecipava alle preghiere del venerdì del Martire Reza Kaymab. Martire, perché Kaymab sarebbe stato ucciso dai Mojahedin-e Khalq, i Mohahedin del Popolo Iraniano, uno dei gruppi più attivi, nei mesi immediatamente successivi alla Rivoluzione, contro la leadership religiosa del 1979. I ferventi sermoni di Kaymab erano diretti contro la dinastia Pahlavi (l’ultima prima della Costituzione Islamica). Interessante, però, come nessuno, nemmeno Soleimani stesso parlando della sua vita, menzioni i leader religiosi del Kerman più in spicco (Ali-Akbar Hashemi Rafsanjani, Mohammad-Ali Movahedi Kermani, Yahya Jafari). Si può quindi pensare che Qassem Soleimani, in virtù della classe sociale umile dalla quale proveniva, abbia abbracciato la Rivoluzione più per motivi socio-politici ed economici, che religiosi. Ma queste, come molto altro, sono solo supposizioni.
La Rivoluzione Islamica
Che si approvi o meno Khomeini e la leadership religiosa che prese il comando, è indiscutibile che la Rivoluzione Islamica del 1979 non fu soltanto, e forse nemmeno principalmente, una rivoluzione religiosa. Il collasso dell’economia, la corruzione, e lo sdegno nazionalista suscitato dalla politica filo-britannica e filo-americana dello Shah, erano fattori centrali. Inoltre, diversamente da molte altre rivoluzioni nella storia (come quella bolscevica del 1917), quella iraniana fu una vera rivoluzione di popolo, genuina espressione della volontà popolare. Al tempo stesso, però, trasse molta forza dal fattore religioso e sciita che, unendo elementi disparati, conferì coesione e obiettivi comuni. Il carisma di Khomeini, inoltre, riunì e centrò una varietà di gruppi e di motivazioni altrimenti eterogenea.
È difficile, se non impossibile, posizionare Soleimani in questa scacchiera. Gli unici elementi certi sono quelli dei fatti: nel maggio 1979 (la rivoluzione era iniziata in inverno, a gennaio-febbraio), Soleimani si arruola nelle appena istituite Guardie Rivoluzionarie (o Guardiani della Rivoluzione, Sepah-e Pasdaran, in Farsi), costituite da Khomeini stesso per avere a disposizione una forza armata affidabile, che contrastasse l’esercito dello Shah (quest’ultimo era fuggito negli Stati Uniti, l’intero patrimonio del Monarca era stato incassato dai rivoluzionari, ma della fedeltà dell’esercito non si poteva essere sicuri). Le Guardie, al contrario, erano ferventi sostenitrici della Rivoluzione, e si andavano ad aggiungere alle bande di strada, che avrebbero preso il nome di Hezbollah, il partito di Dio. Qassem Soleimani aveva 22 anni. “We were all young and wanted to serve the revolution in a way. This is how I joined the Guards”, avrebbe detto in seguito.
La Carriera nelle Guardie Rivoluzionarie (1979-1998)
Come molti altri comandanti delle Guardie Rivoluzionarie, Soleimani non possedeva esperienza militare. Le sue eccellenti performance sul campo e, presumibilmente, la sua devozione, fecero di lui un militare di spicco, tanto che, subito dopo l’arruolamento, fu inviato a guidare la campagna di Mahabad, nell’Azerbaijan occidentale, contro i separatisti curdi che mettevano a repentaglio la Rivoluzione. Fu in quell’occasione che la conoscenza delle società tribali fu di immenso aiuto, fornendogli strumenti strategici non indifferenti: come inserirsi nelle alleanze tribali, romperle dall’interno, manipolarle l’una contro l’altra. Anche su questo è pressoché impossibile ricostruire gli eventi senza il beneficio dell’immaginazione.
Poco dopo, nel settembre 1980, il regime iracheno di Saddam Hussein, senza dichiarazione formale di guerra, invade l’Iran nel Kurdistan e Kuzekhstan – a nord e a sud. Con l’appoggio degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica e, attraverso la vendita di armi, di Egitto, Francia, Gran Bretagna, Germania e Italia, Saddam dà il via a otto anni di battaglie sanguinose, durante le quali fa largo uso di armi chimiche per sedare le rivolte interne curde, mietendo, si stima, oltre un milione di vittime.
Per Qassem Soleimani, appena ventenne, la guerra Iran-Iraq è la prima massiccia operazione bellica, quella che lo consacrerà allo status di stella militare, mantenuto poi per tutta la sua carriera.
Vent’anni dopo, da leader del Quds – l’unità delle Guardie Rivoluzionarie adibita alle operazioni straniere – Soleimani sarebbe tornato in Iraq a seguito dell’invasione americana del 2003, inserendosi nella guerra civile che in tempi immediatamente successivi alla deposizione di Saddam Hussein avrebbe sconvolto il paese, causando migliaia e migliaia di morti. Unendosi a forze endogene che respingevano la presenza americana, Soleimani avrebbe trovato lo spazio per restare in Iraq sino ad oggi.
Sino al 3 gennaio 2020, per essere precisi, quando è stato ucciso.
Leggo che l’ex ambasciatore americano a Baghdad, Ryan C. Crocker, in un’intervista rilasciata nel 2012, commentava così la presenza di Soleimani in Iraq: “No human being could have come through such a World War I-style conflict [la guerra Iran-Iraq] and not have been forever affected. His strategic goal was an outright victory over Iraq, and if that was not possible, to create and influence a weak Iraq”.
La guerra Iran-Iraq degli anni ’80 è stata, di fatti, un’inimmaginabile carneficina. La Rivoluzione Islamica era appena avvenuta e un esercito convenzionale non era stato ancora costituito. È stato proprio per questo che le Guardie Rivoluzionarie, negli otto anni di guerra contro l’Iraq, sono cresciute immensamente, divenendo quello che sono oggi: un organismo politico-militare sopra la legge, che risponde solo a se stesso e alla Guida Suprema. Hanno ricevuto fondi incommensurabili e si sono guadagnati, almeno per quel decennio, il rispetto unilaterale, da parte di tutta la popolazione. Il prezzo, tuttavia, è stato altissimo. Moltissimi dei soldati iraniani arruolati nelle Guardie erano ragazzini: sono quelli della foto pubblicata in apertura, in cui figura Soleimani da giovane. Lo sguardo terrorizzato, stravolto, perso. Se quella foto è stata scattata in quegli anni, probabilmente la maggior parte di loro, in Iraq, è morta.
Qassem Soleimani sarebbe stato nominato leader del Quds fra il 1997 e il 1998, in un momento molto importante: l’ascesa dei Talibani in Afghanistan. Avrebbe continuato la sua carriera in patria, sedando rivolte contro il regime e i cartelli del narco-traffico e poi proseguito, tutta una vita, controllando le aree più disparate del Medio Oriente: dalla Siria e il Libano all’Iraq, dallo Yemen all’Afghanistan. Con i vari gruppi ai quali si associava, ricercava contatti personali, costruiva rapporti di fiducia, alleanze fatte di contatto umano, conoscenza diretta. Univa la tradizione tribale a quella dello statista, del fine politico. Lo immagino spietato, quando necessario. Un uomo di guerra: la morte nella vita, da sempre. Conduceva una vita austera. Seppur in posizione di assoluto potere, era sempre sul campo. Compariva nelle foto in uniformi da soldato semplice, color khaki, le stesse che, probabilmente, aveva indossato a vent’anni, combattendo in Iraq.
Pare che il primo drone, nella notte del 3 gennaio, non si sia schiantato contro la vettura. Sembra che abbia preso il pulmino che la precedeva, o seguiva, non lo so. Il secondo ha quasi mancato il colpo. Negli attimi che hanno preceduto il colpo del terzo drone, l’auto in cui sedeva Soleimani ha avuto il tempo di accelerare, provare a fuggire. Se il conducente è riuscito a spingere sull’acceleratore, Soleimani è riuscito a pensare. Si è preparato a incontrare il suo Dio, forse? Alle lacrime che, finalmente, avrebbe potuto versare? O ha pensato alla sopravvivenza, come aveva fatto per tutta una vita?
Immagino i droni che si abbattono sulla vettura, nella notte. L’esplosione immensa, il fuoco, il rosso delle fiamme che si staglia contro il buio. Il rumore assordante, immane, le lamiere che si schiantano. Sbattono l’una contro l’altra, prendono velocità, schizzano verso il cielo. E sulla terra, fragorosamente, ricadono.
Immagino il fuoco, a terra e, sopra di esso, il cielo. Dev’essere rimasto immobile, il cielo. Per forza. È l’unica cosa certa. Mentre sulla terra le vetture esplodevano e le fiamme divampavano, la terra si ribaltava, saltava in aria. Ricadeva e poi di nuovo in aria. Faceva rumore e di nuovo saltava, si scompaginava. E con lei saltavano l’Iraq, e la guerra, la Siria, e i morti, l’Afghanistan, e i ribelli, e lo Yemen. E Soleimani. Soleimani moriva e il cielo, immobile, guardava.
Immobile e impotente, il cielo.
E con lui, noi.
Enrica Fei nasce a Firenze l’11 maggio 1986. Divisa tra la passione per la letteratura e quella per il settore socio-umanitario e gli affari internazionali, studia lingua e letteratura araba e francese, mediazione inter-mediterranea e relazioni internazionali. Durante e dopo gli studi viaggia molto, soprattutto nel Medio Oriente (in Egitto, Marocco, Siria, Giordania, Libano, Bahrain, Kuwait e Iran). In Giordania vive per un po’ e smette di mentire sul curriculum, imparando finalmente l’arabo. Vive a lungo a Londra ma poi scappa, trasferendosi a Berlino. Scrive racconti, recensioni letterarie e cinematografiche e di Medio Oriente – come giornalista freelance, analista per un’agenzia di consulenza e studentessa di ultimo anno di dottorato in relazioni tra Iran e Iraq post 2003 e identità sciita.
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