“Tahriir”, in arabo, viene dalla parola “hurriia”, libertà. È il sostantivo verbale di “harrara” – liberare. Significa “liberazione”.
Le piazze principali di tre grandi capitali del Medio Oriente si chiamano “saahat attahriir” –Piazza della Liberazione. C’è una Saahat Attahriir a Saʾana, in Yemen, una ad Al Cairo, in Egitto, e una a Baghdad, in Iraq. Sono enormi piazze attraversate ogni giorno da centinaia e centinaia di persone. In occasione di proteste, rivolte popolari, ribellioni, rivoluzioni, hanno sempre rappresentato il loro epicentro, il luogo di ritrovo e raduno dei manifestanti. Sono diventate teatri di sangue e violente repressioni da parte del regime, quando le rivolte popolari – sempre – sono state sedate. Piazza Tahriir: Piazza della Liberazione. È ironico pensare al loro nome.
Piazza Tahriir, a Baghdad, in Iraq, è un’enorme piazza circolare. Gli alberi della grande rotatoria, nonostante il verde, sembrano non spezzare l’insistenza cromatica della piazza: il grigio dei fumi, dello smog, dei grandi fabbricati; le macchine che sfrecciano in tutte le direzioni, il caos, la gente, le urla. A meno di 30 km c’è un aeroporto. Nella notte del 3 gennaio 2020, all’uscita di quell’aeroporto, tre droni americani uccidono due leader militari di alto rilievo – Qassem Soleimani, il Grande Generale iraniano, e Abu Mahdi al-Muhandis, vice-capo delle Forze di Mobilitazione Popolare irachene. L’assassinio, improvviso, fa tremare il mondo: si teme un terzo conflitto globale.
A nemmeno 20 miglia dal luogo dell’attacco, c’è Piazza Tahriir, che nello stesso momento in cui i tre droni uccidevano Soleimani e al-Muhandis, era gremita di persone. Migliaia di migliaia, quante la piazza intera ne può contenere. È sempre affollata, Piazza Tahriir, ma non come lo era il 3 gennaio 2020, e la notte prima, e quella prima ancora, e tutte le notti dai primi di ottobre 2019. Perché, quando Soleimani e Al-Muhandis morivano, a Piazza Tahriir, da tre mesi, stava avvenendo qualcosa che non si vedeva dall’invasione americana del 2003. Quanto di più simile alla rivoluzione.
Nei primi giorni di ottobre, centinaia di migliaia di iracheni sono scesi in piazza a Baghdad e in varie cittadine del sud del paese per protestare contro il governo. Non era una novità per l’Iraq post regime-change (dai tempi, cioè, della deposizione del dittatore Saddam Hussein a seguito dell’invasione americana del 2003). Specie nella stagione estiva, quando le temperature in Iraq sono altissime e l’assenza di acqua potabile, elettricità e gas diventa intollerabile, dal 2003 ad oggi l’Iraq è passato attraverso numerose ondate di proteste più o meno forti (con picchi toccati nel 2009, 2011, 2015 e 2016), più o meno organizzate, e più o meno strumentalizzate dall’uno o dall’altro gruppo politico. Fino all’ultima serie di tumulti, iniziata, appunto, i primi di ottobre 2019 e ad oggi, febbraio 2020, ancora in corso. Le ragioni sono sempre le stesse: gli alti costi dei servizi (gas, elettricità e acqua); i frequenti tagli dell’elettricità (che arriva in Iraq dall’Iran e a momenti alterni, soprattutto in estate, viene staccata per numerose ore al giorno); l’alto tasso disoccupazione giovanile (intorno al 40% per una popolazione giovanissima – più del 58% degli iracheni ha meno di 24 anni); la corruzione politica (secondo il Transparency International’s 2019 Corruption Perceptions Index, l’Iraq è al numero 162 tra 180 paesi).
Eppure questa volta, a differenza delle altre, le proteste si sono evolute in qualcosa di nuovo, di diverso, che nell’Iraq post-invasione non si era mai visto.
Nonostante la feroce risposta del governo che, con l’aiuto delle milizie iraniane presenti sul territorio iracheno, ha attaccato i manifestanti con gas lacrimogeni e sparato sulla folla (provocando, secondo l’inviato speciale delle Nazioni Unite più di 500 morti e quasi 20.000 feriti) le proteste non solo non si sono fermate, ma si sono anzi moltiplicate, nel numero di manifestanti e nell’estensione geografica, allargandosi a macchia d’olio a Sud, perfino nella città sacra di Najaf, tradizionalmente immune alle proteste data la sua statura per l’Islam sciita, la corrente dell’Islam maggioritaria in Iraq.
Sono cresciute in un movimento popolare che da una parte ha rivendicazioni e richieste precise, dall’altra non protesta contro il governo in carica, ma contro la classe politica in toto, il sistema di governo, il modus operandi della leadership dal 2003 ad oggi. Una generazione politica, quella post-Saddam, che la gioventù irachena di oggi percepisce come obsoleta, aliena, incapace di far fronte alle necessità del paese e preoccupata di un unico obiettivo: proteggere se stessa e i propri alleati, l’Iran e gli Stati Uniti. Una classe politica che, complice il sistema di governo messo al potere dall’amministrazione americana dopo la deposizione di Saddam, ha risposto a logiche nepotiste ed etno-settarie che, favorendo alcuni gruppi tribali e religiosi (nella fattispecie, quello sciita), ne discrimina altri, minando l’unità e la coesione del paese (costituita da sunniti, kurdi, e altre minoranze). Come ha scritto l’analista Harith Hasan, senior fellow per il Carnegie Middle East Centre, “a new generation of mobilized and increasingly politicized young Iraqis has emerged, and none of the existing societal and political groups is capable of fully containing it”.
Il movimento di Piazza Tahriir
A differenza del 2009, del 2011, del 2015, nessuna élite intellettuale o politica è oggi al comando delle proteste. Moqtada as-Sadr, il leader politico e religioso a capo del Movimento Sadrista che, con la Coalizione Sairoon, ha vinto il maggior numero di seggi alle elezioni presidenziali del 2018, ha provato a inserirsi nel movimento, mobilitando quella porzioni di manifestanti che, presumibilmente, lo avrebbe appoggiato. Da una parte, infatti, il movimento Sadrista possiede un’anima islamista e fortemente sciita (Moqtada as-Sadr è un clerico lui stesso); dall’altra, però, è un movimento populista, anti-establishment, che è cresciuto enormemente brandendo la bandiera nazionalista e il sentimento anti-americano. Quando le circostanze politiche si sono rese favorevoli ad una strumentalizzazione degli attuali tumulti – dopo l’assassinio, cioè, del Generale Soleimani – Moqtada as-Sadr si è fatto avanti. Ma quando, il 24 gennaio, ha chiesto che le proteste cessassero invitando ad un dialogo col governo, è divenuto chiaro ciò che molti, tra i rivoltosi, avevano sostenuto: il suo appoggio era solo strumentale. E le proteste, anche senza di lui, sono continuate.
Osservando i movimenti di mobilitazione popolare dai tempi delle Primavere Arabe del 2011, l’analista Rami Khouri, professore all’American University di Beirut e senior fellow presso Harvard University, ha suggerito che si stia assistendo, nel Medio Oriente, allo scontro fra due motori ideologici che, pur non essendo nuovi nella storia della regione, si sono disposti per la prima volta in una dialettica conflittuale: la “resistenza” (moqawwama, in arabo), e la “rivoluzione” (thawra). La prima è quella anti-imperialista di resistenza all’ingerenza straniera, quella che respinge le forze americane, l’occupazione israeliana dei territori palestinesi e l’espansionismo nei paesi arabi della Repubblica Islamica dell’Iran (la quale, da super potenza regionale, porta avanti una politica estera di ingerenza nei paesi arabi vicini, sostenendo milizie sul territorio e finanziando gruppi dissidenti che possano sovvertire lo status quo). È parte integrante dell’ideologia di vari regimi e movimenti della regione: tra i molti altri, dell’Iran (con il suo acceso anti-imperialismo e anti-americanismo); dell’Arabia Saudita e del Bahrain (con la sua propaganda anti-Iran); di movimenti politico-ideologici come i Fratelli Musulmani (con il suo anti-occidentalismo); e di numerosi partiti, come quelli iracheni, che fanno della resistenza all’Iran e/o agli Stati Uniti un cavallo di battaglia dalla forte presa populista (il Movimento Sadrista in primis).
La seconda, invece, è quella delle Primavere Arabe, una forza ideologica divergente rispetto allo status quo, una forza delle strade, del popolo in rivolta. Non ha governi che la rappresentino. È quella che vuole il cambiamento, il pluralismo democratico, lo stato di diritto, la giustizia sociale. Quella che, tra le altre cose, ha spinto i cittadini iraniani del Movimento Verde a scendere in piazza nel 2009, a sovvertire i regimi tunisini ed egiziani nel 2011, a protestare in Siria tra il 2011 e il 2012.
Le proteste irachene di oggi rientrino nella categoria ideologica della “rivoluzione”. I manifestanti protestano per lo stato di diritto, la giustizia sociale, riforme adeguate. Tra dicembre e gennaio, sono state portate avanti proposte ancora più radicali: un cambio del sistema di governo, una nuova Costituzione. La classe politica è rifiutata nella sua interezza in quanto, come ha detto la studentessa universitaria Mehdi Chassin a un giornalista del New York Times, “our goal is not to have Prime Minister Adel Abdul Mahdi resign. That makes no difference because another guy will come who will be just the same. We want them all to go”.
Ma c’è di più. L’elemento della resistenza è una delle principali vertebre della sua spina dorsale. La classe politica è accusata, tra le altre cose, di essersi venduta alle due grandi potenze che, dal 2003, risiedono sul territorio iracheno: la Repubblica Islamica dell’Iran e gli Stati Uniti – super potenze che, agli occhi dei manifestanti, sono responsabili quanto i politici del fallimento dello stato iracheno. È per questo che il tentativo di Moqtada as-Sadr è fallito: il cavallo della resistenza anti-americana, questa volta, non ha avuto presa. Perché se il Movimento Sadrista brandisce l’ideologia della resistenza, i manifestanti non solo quella ma, anche, della rivoluzione. La bandiera nazionalista e resistente è strumentale, per Moqtada as-Sadr: e questo, ai manifestanti delle attuali proteste, è finalmente chiaro.
Da quando i tumulti sono scoppiati, le forze di sicurezza irachene e le milizie iraniane hanno attaccato le piazze in modo selvaggio. Li aggrediscono quotidianamente con gas lacrimogeni, sparano sulle folle, organizzano retate punitive dove picchiano a morte i manifestanti. È come se i promotori di quell’elemento ideologico della “resistenza” – i partiti iracheni contro l’ingerenza iraniana e americana, e le milizie iraniane contro gli Stati Uniti -, si scatenassero contro coloro che si battono per la “rivoluzione”, nonostante questi ultimi siano fautori, anch’essi, della resistenza alle forze straniere.
Tra i numerosi video che, su Twitter, raccontano le proteste, ne ho trovato uno, girato di notte a Piazza Tahriir. L’autore del video si trova a qualche decina di metri da un grande carro; sul tetto della vettura, degli uomini al megafono. L’immagine si muove, a sinistra, a destra, in alto, in basso. L’autore del video sta, immagino, saltando. O forse balla, chissà. Nel buio, la piazza sembra illuminata: il colore caldo dei lampioni, il rosso delle bandiere irachene sventolate dai manifestanti, le luci fredde e bianche dei cellulari. La piazza è affollatissima, i manifestanti urlano, cantano, ballano. Nonostante le temperature invernali, la piazza sembra calda: sono i colori, credo, e l’aria di festa. “Anta Iraani?” (Sei iraniano? In arabo) urla l’uomo col megafono. “Laa!” (No!) risponde la folla. “Anta Amriiki?” (Sei americano?) – “Laa!”; “Anta Baʾathist?” (Sei Baʾathista?) – “Laa!”; “Anta ʾIraqi?” (Sei iracheno?) – “EEH!” (Sì!). “EH! EH! EH!”. La folla è in giubilo.
Il movimento è trasversale. In piazza ci sono uomini, donne, giovani e più anziani, dei più diversi background. Hawraa Mohammed, studentessa del primo anno di università, confessa di avere avuto paura della reazione di suo papà. Hawraa è di Basra, e Basra non è Baghdad: è una città del sud che, come tutta la regione meridionale, è più conservatrice. “When I got back, he didn’t speak to me angrily – racconta – “He was quiet and he wasn’t even against my protesting. He was just afraid that I might get hurt.” Una donna più adulta, Araji, giornalista e blogger, 30 anni, parla con più sicurezza: “The frontline is where I feel happiest. It’s where I belong. If I die here, I’ll have sacrificed my life for a cause, for my country”.
Ci sono gli iracheni borghesi, il cui fratello o sorella studia in Inghilterra o negli Stati Uniti, e gli autisti di tuk-tuk, un pittoresco taxi a tre ruote, di fatto una scatoletta rettangolare dall’equilibrio instabile, le due luci frontali incastonate in uno strano parafango nero sopra la piccola ruota anteriore: a seconda della forma del parafango, la faccia del tuk-tuk è più o meno corrucciata o sorridente. I conducenti – tra gli iracheni più poveri del paese – erano famosi per essere terribili guidatori. Con le proteste, sono diventati degli eroi: la mascherina per proteggersi dai gas lacrimogeni in volto, sfrecciano rapidi nel caos della folla. Portano assistenza medica, viveri, acqua, trasportano i feriti. Murthada Ali, 15 anni, è un tassista di tuk-tuk di Sadr City, un quartiere povero di Baghdad. Con orgoglio, spiega al giornalista: “We are not ashamed of being poor anymore because the protest is not going to succeed without us being beside the demonstrators. I must be on the bridge on the front line to be close to protesters who might get shot or hurt. My country wants me to be here, so here I am”.
Le conseguenze dell’assassinio di Qassem Soleimani
Dopo l’assassinio di Qassem Soleimani e Abu Mahdi Al-Muhandis – uomini di Stato, soprattutto il primo, dalla magnitudine simbolica e militare incommensurabile per l’Iran – la paventata terza guerra mondiale non è scoppiata. Se si escludono gli attacchi alle basi militari americane nella regione di Anbar ed Erbil, in Iraq, la risposta iraniana è stata relativamente tiepida. La cosa ha stupito gli analisti, ma solo relativamente. I due, soprattutto Soleimani, erano gli uomini più ricercati dall’amministrazione americana dai tempi di Osama bin Laden e prendevano misure di sicurezza estreme, specie quando in Iraq: solo un tradimento dall’interno può spiegare il loro assassinio. Il tempo ci dirà quali forze nella macchina iraniana abbiano voluto prendere il posto del Grande Generale e a quali fini. Ad oggi, complice la segretezza del regime, è molto difficile avanzare ipotesi.
Il popolo che sta più soffrendo le conseguenze dell’assassinio di Soleimani è quello del territorio dove l’assassinio è avvenuto: quello iracheno, quello di Piazza Tahriir.
Con il mondo concentrato sull’escalation delle tensioni tra Stati Uniti e Iran, non solo è venuta meno l’attenzione alle proteste, ma anche la violenza perpetrata contro i manifestanti. “Everyone is busy with America and Iran, but we are still facing attacks on the street – dice Zaid – Now we’ve become an easy goal for the militias; they can harm us because no one is focusing on them”. Le milizie iraniane sono diventate più feroci che mai: la tolleranza verso i tumulti è, se possibile, ancora minore. E l’attenzione della comunità internazionale verso queste violazioni dei diritti umani e civili, si tema che venga meno.
Inoltre, se alcuni gruppi politici, come quello di Moqtada as-Sadr, avevano fatto della resistenza contro gli Stati Uniti e l’Iran il loro cavallo di battaglia, l’assassinio di Soleimani ha ricompattato il fronte politico. Non intorno alla resistenza contro le forze straniere (Stati Uniti e Iran in egual misura) ma, complice la forte presenza iraniana sul territorio e la paura dello scontro con una potenza come la Repubblica Islamica, all’anti-americanismo.
Il 29 novembre, il Primo Ministro Adil Abdul-Mahdi si è dimesso. Secondo la Costituzione irachena, il parlamento avrebbe dovuto nominare un nuovo Primo Ministro entro 2 settimane, ma non ci è mai riuscito. L’1 febbraio 2020, il Presidente Barham Salih ha nominato Mohammed Tawfiq Allawi. La folla ha risposto brandendo immagini del ministro con un’enorme croce rossa. “We reject Allawi”, recitavano gli slogan. Allawi è stato Ministro delle Comunicazioni durante il governo di Nouri al-Maliki (2006-2010). Al Maliki è considerato uno dei maggiori fautori della politica nepotistica etno-settaria e dell’apertura all’Iran. Non è chiaro quali fossero i piani dell’amministrazione di Donald Trump con l’assassinio di Suleimani. Quel che è pressoché certo, però, è che, da adesso, l’ingerenza iraniana negli affari politici e militari iracheni sarà solo maggiore.
Il “Turkish Restaurant” in Piazza Tahriir
Il cosiddetto “Turkish Restaurant” è un enorme edificio che si affaccia su Piazza Tahriir. Risale all’epoca di Saddam Hussein e nel 2003 fu bombardato dalle forze americane. Prende il nome dal famoso ristorante che, negli anni ’80, era una delle venue più apprezzate della città: dalla terrazza, all’ultimo piano, si vede il fiume Tigri e tutta Baghdad.
Dall’inizio delle proteste è diventato un luogo simbolo del movimento popolare. I manifestanti si ritrovano lì per discutere, organizzarsi, decidere le misure da prendere per far fronte agli attacchi della polizia e delle milizie iraniane. Gremito di persone, è tappezzato di bandiere irachene. La notte si riempie di candele: la folla piange i morti per mano delle forze, i martiri della resistenza e della rivoluzione.
I primi cinque piani dell’edificio, oggi, sono una galleria d’arte. I murales, le sculture, le esposizioni fotografiche sono in continua espansione, gli artisti sono costantemente a lavoro. “We have many thoughts about Iraq, but no one from the government ever asked us,” dice Riad Rahim, 45 anni, un insegnante di arte.
Alcune opere si ispirano alla pop art anni ’60. Rosie The Rieveter ha una bandiera irachena sulla guancia; la “Notte Stellata” di Van Gogh ospita il Turkish Restaurant di Piazza Tahriir.
Gli alberi e le foglie che cadono sono un soggetto comune. L’albero di Zainab Abdul Karim e sua sorella Zahra, 22 e 15 anni, è una silhouette nera in un cimitero. L’albero è solo, ma le lapidi moltissime. L’Iraq è l’albero, e le lapidi gli iracheni uccisi dalla polizia.
L’albero di Diana al-Qaisi, invece, è diverso. “This tree is Iraq and I am going to write on each leaf the name of one of those martyred by the security forces,” dice la giovane artista, 32 anni. “Its leaves are dropping because it is autumn and those who are trying to kill the tree are trying to kill the revolution”. “Even if they try – aggiunge – some leaves stay in the tree, waiting to be born.”
Chissà se ha ragione, Diana. L’assassinio di Soleimani ha messo a dura prova le proteste; la morsa Iran-Stati Uniti è ancora più forte intorno all’Iraq. Eppure, più di un mese dopo l’attacco americano, i manifestanti sono ancora lì.
È Piazza Tahriir, del resto. La Piazza della Liberazione.
Enrica Fei nasce a Firenze l’11 maggio 1986. Divisa tra la passione per la letteratura e quella per il settore socio-umanitario e gli affari internazionali, studia lingua e letteratura araba e francese, mediazione inter-mediterranea e relazioni internazionali. Durante e dopo gli studi viaggia molto, soprattutto nel Medio Oriente (in Egitto, Marocco, Siria, Giordania, Libano, Bahrain, Kuwait e Iran). In Giordania vive per un po’ e smette di mentire sul curriculum, imparando finalmente l’arabo. Vive a lungo a Londra ma poi scappa, trasferendosi a Berlino. Scrive racconti, recensioni letterarie e cinematografiche e di Medio Oriente – come giornalista freelance, analista per un’agenzia di consulenza e studentessa di ultimo anno di dottorato in relazioni tra Iran e Iraq post 2003 e identità sciita.
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